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Posts Tagged ‘Corriere della Sera’

Alcuni link inerenti l’appello “In attesa del vescovo che verrà” del 14 febbraio 2010

(post in aggiornamento)

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Carlo Maria Martini (Cardinale, arcivescovo emerito di Milano)
Corriere della Sera – 7 settembre 2009

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»: sono, secondo l’evangelista Lu­ca (23,46), le ultime parole che Gesù morente «grida a gran vo­ce ». Sono parole già presenti nel­la tradizione ebraica, dove figura­no nel Salmo 31, una sofferta pre­ghiera nella prova, che inizia con le parole «In te, Signore, mi so­no rifugiato; mai sarò deluso». Al verso 6 si trovano le parole fat­te proprie da Gesù morente: «Al­le tue mani affido il mio spirito; tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele». Ma molte altre nella Bib­bia sono le espressioni che indi­cano un abbandono dell’uomo nelle mani di Dio, come ad esem­pio il Sal 16[17],7: «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore Dio fedele». Nel Vangelo si può notare che Gesù, invece di invo­care il «Signore, Dio fedele», si rivolge al «Padre», il che dà all’af­fidamento una accentuazione di ancora maggiore fiducia e tene­rezza.

Noi sappiamo bene che que­sto concetto del «mi affido alle tue mani» è decisivo per ogni esi­stenza umana, a partire dal but­tarsi fiducioso del piccolo nelle braccia della mamma e del papà, fino a tutte quelle realtà a cui affi­diamo una buona parte della no­stra crescita e della nostra matu­razione, come la scuola, il grup­po di amici, le autorità civili e po­litiche, l’opinione pubblica e così via.

C’è oggi un’altra autorità a cui, più che in passato, noi sentiamo a un certo punto di essere «nelle sue mani». È l’autorità del medi­co, soprattutto quella che soprav­viene quando non siamo più ca­paci di aiutarci da soli nella no­stra vita fisica, quando si svilup­pano in noi malattie gravi, che ri­chiedono una cura competente e prolungata. Per questo il titolo dato al suo ultimo libro da Igna­zio Marino Nelle tue mani: medi­cina, fede, etica e diritti corri­sponde a questa esperienza di mettere, in certi momenti, il no­stro futuro e la nostra sopravvi­venza nelle mani di chi ha studia­to il corpo umano, le sue malat­tie e le sorprese che esso può ri­serbarci: quali sono in questo ca­so le mie giuste aspettative, quali i miei diritti e doveri, che cosa spetta alle autorità pubbliche, quali i dilemmi che il medico vi­ve in prima persona?

Emerge così chiaramente che quell’espressione «nelle tue ma­ni » non si riferisce soltanto ad al­tri, ma tocca anche in prima per­sona ciascuno di noi, che sente di essere «nelle proprie mani». Così vengono a collegarsi i due elementi, cioè la forza della me­dicina e il sapiente e prudente giudizio della persona. I progres­si dell’arte medica potrebbero portare avanti per molto tempo, usufruendo di macchine spesso complicate, anche una esistenza senza più coscienza né contatti con il mondo circostante, ridotta a pura vita vegetativa. Qui inter­viene il giudizio prudenziale non solo del medico, ma anzitutto della persona interessata o di chi ne ha la responsabilità, per di­stinguere tra mezzi ordinari e mezzi straordinari e decidere di quali mezzi straordinari vuole an­cora servirsi.

Il libro esamina tanta di que­sta casistica e lo fa non tanto con assiomi generali, ma con la me­moria di fatti avvenuti, di cui l’au­tore è stato testimone in prima persona. Una tale situazione in cui la vita fisica si trova in perico­lo è anche l’occasione per descri­vere da vicino i problemi e i di­lemmi che si pongono al malato come al medico e a tutti coloro che hanno a cuore il malato stes­so. Le enormi possibilità della scienza medica pongono non di rado di fronte a situazioni in cui è molto difficile stabilire che co­sa sia un «rimedio ordinario», cioè quegli strumenti che ciascu­no è tenuto, non per obbligo le­gale, ma per dovere e impulso in­teriore, a utilizzare, e che cosa si­ano invece quei «mezzi straordi­nari » che il malato o chi lo rap­presenta, può decidere per ragio­nevoli motivi, di utilizzare o di re­spingere. Nasce qui quella do­manda che vediamo emergere sempre più distintamente nel di­battito pubblico: fino a che pun­to può e deve spingersi la medici­na? Certamente, come afferma l’autore «è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo provoca frustra­zioni e sconforto». Ma quando si verificano questi casi, che vor­remmo ancora chiamare «estre­mi », in particolare quando «c’è uno stato che non solo impedi­sce di esprimersi e di relazionar­si col mondo esterno, ma blocca la coscienza e riduce la persona a un puro vegetare e tale stato si ri­vela, dopo un attento e prolunga­to esame, come irreversibile?».

L’autore cerca di informare il lettore di tutte queste realtà e queste possibilità, pubblicando anche i documenti relativi, talo­ra poco noti. Come narratore, egli ci fa partecipare ai suoi dub­bi e alle sue certezze, facendoci per così dire vivere come in pri­ma persona gli eventi narrati. Non si tratta solo di eventi riguar­danti l’interrogativo dei limiti della medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimentazione, in parti­colare dei trapianti. Dal tutto traspare una umani­tà e una onestà nel considerare i singoli casi che spinge alla fidu­cia nel mettersi «nelle mani» di tanti servitori della vita. Ciò però non esclude il rischio e la respon­sabilità che ciascuno deve saper assumere quando venisse il mo­mento di farlo. È così che chi sen­te il mistero di Dio incombere sulla propria vita potrà anche esprimere quella fiducia nelle mani del Padre, da cui siamo par­titi in questa breve riflessione.

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Tettamanzi, l’Expo e la solidarietà:
«Milano smarrita, torni capitale morale»

Il cardinale: la città ha energie e creatività, ma deve accogliere senza paura

(di Giangiacomo Schiavi, Corriere della Sera, 20 maggio 2009)

MILANO — Una città smarrita, frantumata, in­cattivita. Cadono i miti in questa Milano con poco orgoglio e molte paure. Era la città dell’accoglien­za. Oggi si discute di apartheid in metrò. Soffia un vento di intolleranza: e a volte il Duomo sembra un fortino assediato. Tempo fa sventolava uno stri­scione della Lega: «Vescovo di Kabul». C’è chi esa­gera, anche con le minacce. Il cardinale Dionigi Tettamanzi considera gli im­migrati una risorsa e parla a una città che ha perso un po’ della sua anima. «La diversità è sempre un problema — dice — ma noi dobbiamo avere la vi­sta lunga dei profeti, preparare il domani. L’inte­grazione è più avanti di quel che si pensi: basta im­parare dal mondo dei ragazzi, recuperare un po’ della loro saggezza». C’è una paura che nasce dal­l’egoismo, dall’assenza di visione. «Alla Milano di oggi manca la consapevolezza del suo ruolo, della sua responsabilità verso i propri abitanti e il Paese, della sua vocazione europea». Non c’è futuro senza solidarietà, gli ha scritto una giovane studentessa. La lettera è diventata il titolo del suo ultimo libro. Con la crisi bisogna ri­tessere tessuti sociali sfilacciati, riscoprire la so­brietà, lavorare per una convivenza più umana. «Dobbiamo assumerci tutti le nostre responsabili­tà — spiega — chi non lo fa non è solo inutile, è anche dannoso». La notte di Natale ha messo a di­sposizione dei nuovi poveri e di chi ha perso il po­sto qualcosa di suo e poi ha detto: ai poveri le case dei preti. Certi immobili del clero sono troppo grandi, possono essere usati da chi ha più biso­gno. È il concetto del buon samaritano. Si sono per­se queste pratiche solidali nella città di Milano? «No. La solidarietà non si è persa a Milano. Ne ho prove concrete. Il Fondo Famiglia-Lavoro ha raccolto in poco più di quattro mesi 4,3 milioni di euro tra la gente. E al tempo stesso nelle parroc­chie sono state donate ingenti quantità di denaro per i terremotati d’Abruzzo, in Quaresima dalle mille comunità della Diocesi sono scaturiti senza clamore altrettanti rivoli di solidarietà che hanno dissetato i bisogni di tanti poveri assistiti dai mis­sionari ».

Questo è un Paese che riesce a dare il meglio nei momenti di difficoltà. Milano è risorta dalle macerie con un progetto di speranza e di acco­glienza…
«Ricordo quei giorni, c’erano le macerie ma an­che molti fermenti positivi. Oggi vedo tanta gene­rosità, nonostante la crisi. Ma c’è una condizione che fonda la solidarietà: come si può essere solida­li se non a partire da una prossimità offerta e da una condivisione sperimentata? È l’individuali­smo a minare la solidarietà. Questa forma di soli­tudine genera in sequenza paura, chiusura, rifiuto dell’altro, specie se portatore di una diversità. Co­me purtroppo accade verso gli immigrati».

Trova una maggior difficoltà nella borghesia di oggi a donare un po’ del superfluo per chi ha bisogno?
«Da sempre l’esercizio della carità — un eserci­zio discreto, silenzioso, evangelico — è patrimo­nio per tante famiglie di ogni estrazione sociale. È un modo per essere responsabili verso la società. Piuttosto mi domando se esista ancora la borghe­sia della Milano dei decenni scorsi…».

Dov’è Milano e dove sono i milanesi è una do­manda ricorrente in questi giorni. Qual è la Mi­lano che si vede dalla stanza del cardinale?
«Milano è una città che sfugge alle semplifica­zioni immediate e chiede tempo e perspicacia per essere conosciuta e amata. Io vedo una Milano ge­nerosa nell’aiutare ma talora diffidente ad aprirsi e a intrecciare legami di conoscenza e arricchimen­to reciproco, specie se l’altro è portatore di qual­che diversità. Vedo anche una città piena di ener­gia, di creatività, di risorse, con la fatica però a fa­re sistema, a dare piena espressione alle proprie potenzialità attraverso progetti concreti e condivi­si di grande respiro e di corale coinvolgimento. L’Expo rappresenta, in questo senso, una grande chance».

Tra polemiche e ritardi, la partenza però non è stata incoraggiante. Bisognerebbe spiegare a Milano cos’è Milano, riunire le tante radici posi­tive in un disegno comune…
«Ci sono oggi tante città impenetrabili: la città della fiera, la città della moda, della finanza, di un gruppo etnico, le periferie, il centro storico… Ma solo una città che ritrova l’ambizione della pro­pria identità civica — pensata come sintesi viva delle sue tante originalità — può tornare a fare ap­passionare al bene comune e a suscitare il deside­rio di una partecipazione responsabile. Una città così ritiene dovere fondamentale garantire un’abi­tazione decorosa ai suoi abitanti, si preoccupa di tutelare tutti e in modo particolare i deboli. Se in­vece si alimentano le contrapposizioni questa identità non si realizza, l’atteggiamento della cor­responsabilità decresce e scompare, ad alcune ca­tegorie di persone non vengono riconosciuti tutti i diritti».

Esiste una vocazione per la Milano del futu­ro?
«Milano può e deve ritrovare la sua vocazione di capitale morale del Paese, di crocevia dei popoli e di laboratorio italiano della metropoli postmo­derna».

Oggi sono più i segnali di allarme o quelli di speranza?
«Io dico che c’è una speranza Milano che può contagiare il Paese intero. Incontro la speranza vi­sitando le parrocchie, seguendo il lavoro pastora­le dei miei preti, delle associazioni, del volontaria­to. Ma questa speranza perché non ha visibilità? Perché non fa notizia? Perché anche i media non si assumono la responsabilità di far circolare la speranza? Servono occhi di speranza per ricono­scere quanto c’è di positivo e anche per suscitar­lo».

Che cosa chiede il cardinale a chi governa una città complessa?
«Di stare vicino alla gente, alle necessità mate­riali e spirituali del vivere quotidiano; ma insieme di coltivare una grande apertura al senso alto della politica. Occorre ricondurre tutte le scelte ammini­strative ad una grande, organica visione di città, consapevoli che Milano è parte e protagonista del sistema Paese. La responsabilità della vita della cit­tà e del territorio non può ricadere solo sui suoi amministratori. Tutti sono responsabili di tutto. Ma è compito degli amministratori mettere i citta­dini e le associazioni nelle condizioni di dare il proprio insostituibile contributo a beneficio di tut­ti ».

C’è a suo giudizio un rallentamento del pro­cesso di integrazione influenzato da calcoli elet­torali?
«C’è una fatica della nostra società a confrontar­si con l’immigrazione, una realtà che è un proble­ma ma che resta una opportunità. È all’immigra­zione che Milano deve non poco della sua fortuna: questa città è frutto di ripetuti e successivi proces­si di integrazione. È una memoria da recuperare, una memoria che è incarnata anche dalla sapienza biblica nel libro del Levitico: ‘Tratterete lo stranie­ro, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stra­nieri’ ».

Come dovrebbe essere la politica dell’acco­glienza nella legalità?
«Occorre intervenire per regolare doverosa­mente il fenomeno migratorio, garantendo la lega­lità, attivandosi di concerto con le altre nazioni e le istituzioni sovranazionali, sempre nel rispetto dell’inviolabile dignità di ogni persona. Una digni­tà spesso umiliata nei paesi d’origine degli immi­grati: non possiamo dimenticare da quali condizio­ni fuggono coloro che bussano alle nostre porte. La politica deve muoversi — ma qui le lacune so­no evidenti — sul piano della progettazione, per immaginare e realizzare modelli di convivenza e di integrazione, aggregando tutte quelle forze so­ciali, culturali, educative, istituzionali che ne han­no competenza. Chiesa compresa».

In una recente omelia ha detto che da questa crisi si può uscire migliori. Ne è ancora convin­to?
«Cito una frase dell’economista Marco Vitale che mi ha colpito. ‘Se la crisi aiuterà questa muta­zione dovremo essere grati alla crisi, perché ci avrà aiutato a trasformare la paura in energia’. Sperimentiamo la paura perché sentiamo venir meno le facili certezze sulle quali abbiamo fonda­to tanto della nostra vita. Aiutare a trasformare la paura in energia è anche compito delle Istituzioni, della politica, delle agenzie educative, della Chie­sa. E la solidarietà è un’energia che si sta già spri­gionando. Vorrei che lasciasse il segno».

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(dal Corriere della Sera)

Carlo Maria Martini – Non so se sono sveglio o sto sognando. So che mi trovo completamente al buio, mentre un lento sciabordio mi fa pensare che sono su una barca che scivola via sull´acqua. Cerco a tastoni di stabilire meglio il luogo in cui mi trovo emi accorgo che vicino ame vi è un albero, forse l´albero maestro dell´imbarcazione. A poco a poco mi avvicino così da potermi aggrappare a esso con le mani, per avere un po´ di sicurezza e di stabilità nei sempre più frequenti moti della barca sulle onde. In questo tentativo incontro qualcosa che mi sembra come una mano d´uomo. Forse è un altro passeggero che sta cercando anche lui di appoggiarsi all´albero maestro. Non so chi sia, come non so io stesso come mi sia trovato su questa barca. Ma il tocco di quella mano mi dà fiducia: mi spingo avanti così da poterla stringere ed esprimere la mia solidarietà con qualcuno in quell´oscurità che mette i brividi. Vorrei anche tentare di dire qualcosa, pur non sapendo se il mio compagno di barca capisce l´italiano.

Ma nel frattempo lui inizia a farmi qualche breve domanda, a cui sono lieto di rispondere. Si tratta di una persona che non conoscevo, ma di cui avevo sentito parlare. Mi colpiva il suo interesse per me in quel momento difficile, in cui ciascuno avrebbe voglia di pensare solo a se stesso. Dialogando così nella notte fonda, in quel momento di incertezza e anche di pericolo si videro a poco a poco spuntare le prime luci dell´alba. Riconobbi il luogo in cui mi trovavo: eravamo noi due soli in barca. E usando alcuni remi che trovammo in fondo a essa, ci mettemmo a remare verso la riva, fermandoci ogni tanto per assaporare la tranquillità del lago. Ci siamo detti molte cose in quelle ore. È venuto chiaramente alla luce durante la conversazione che eravamo tanto diversi l´uno dall´altro. Ma ci rispettavamo come persone e ci amavamo come figli di Dio. Anche il fatto di trovarci sulla stessa barca ci permetteva di comprenderci e di accoglierci, così come eravamo. Tra le prime cose che ci siamo detti c´è naturalmente un poco di autopresentazione. Così ho appreso che il mio interlocutore aveva nientemeno che ottantanove anni, mentre io ne avevo ottantadue. Don Luigi Verzé (tale appresi poi essere il nome di colui che viaggiava con me) presentava la sua vita come quella di uno che aveva vissuto sessantuno anni di sacerdozio. (…)

Luigi Maria Verzé – Quanto è cambiata ora la valutazione etica ecclesiastica, rispetto a quella imposta ai tempi della mia infanzia. D´altra parte, poiché la moralità è imperativo categorico, la gente si fa una propria etica laica e la Chiesa resta con un´etica cristiana incongruente perché incondivisa dagli stessi devoti. Ricordo, per esempio, che nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti. Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita. Il Brasile, totalmente cattolico fino agli anni Ottanta, ora è disseminato di chiese e chiesuole semicristiane, organizzate però sui bisogni anche spiccioli della gente. La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate e delle feste per la dea Iemanjà, l´antica Venere cui tutti, compreso il prefetto cristiano, gettano tributi floreali. La Chiesa, più che vivere, sopravvive sulle ossa degli eroici primi missionari. E poiché siamo in tema di morale pratica, che cosa dice, Eminente Padre, della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati? Io penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l´obbligo del celibato, poiché temo che per molti il celibato sia una finzione. E non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio, oggi così estraneo ai fatti della Chiesa? Forse non si è ancora maturi per tutto questo, ma Lei non crede che siano temi ai quali si dovrebbe pensare pregando lo Spirito?

Carlo Maria Martini – Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele. Per questo, la Chiesa appare un po´ troppo lontana dalla realtà. Purtroppo sono d´accordo che le fiumane di gente che vanno a manifestazioni religiose non sempre le vivono con profondità. Occorre prepararle, e occorre dopo dare un seguito di riflessione nell´ambito della parrocchia o del gruppo. Non credo, però, che si possa dire che in Paesi come il Brasile, la Chiesa non vive ma sopravvive soltanto sulle ossa dei primi eroici missionari. La Chiesa vive là anche su gente semplice, umile, che fa il proprio dovere, che ama, che sa comprendere e perdonare. È questa la ricchezza delle nostre comunità. Tanti laici di queste nazioni e anche tanti laici vicino a noi sono seri e impegnati. Lei mi chiede che cosa penso della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati. Io mi so no rallegrato per la bontà con cui il Santo Padre ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Penso, però, con tanti altri, che ci sono moltissime persone nella Chiesa che soffrono perché si sentono emarginate e che bisognerebbe pensare anche a loro. E mi riferisco, in particolare, ai divorziati risposati. Non a tutti, perché non dobbiamo favorire la leggerezza e la superficialità, ma promuovere la fedeltà e la perseveranza.

Ma vi sono alcuni che oggi sono in stato irreversibile e incolpevole. Hanno magari assunto dei nuovi doveri verso i figli avuti dal secondo matrimonio, mentre non c´è nessun motivo per tornare indietro; anzi, non si troverebbe saggio questo comportamento. Ritengo che la Chiesa debba trovare soluzioni per queste persone. Ho detto spesso, e ripeto ai preti, che essi sono formati per costruire l´uomo nuovo secondo il Vangelo. Ma in realtà debbono poi occuparsi anche di mettere a posto ossa rotte e di salvare i naufraghi. Sono contento che la Chiesa mostri in alcuni casi benevolenza e mitezza, ma ritengo che dovrebbe averla verso tutte le persone che veramente la meritano. Sono, però, problemi che non può risolvere un semplice sacerdote e neppure un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi e, guidata dal Papa, trovi una via di uscita. Dopo di ciò Lei affronta un problema molto importante, dicendo che ai sacerdoti andrebbe tolto l´obbligo del celibato. È una questione delicatissima. Io credo che il celibato sia un grande valore, che rimarrà sempre nella Chiesa: è un grande segno evangelico. Non per questo è necessario imporlo a tutti, e già nelle chiese orientali cattoliche non viene chiesto a tutti i sacerdoti. Vedo che alcuni vescovi propongono di dare il ministero presbiterale a uomini sposati che abbiano già una certa esperienza e maturità (viri probati). Non sarebbe, però, opportuno che fossero responsabili di una parrocchia, per evitare un ulteriore accrescimento del clericalismo. Mi pare molto più opportuno fare di questi preti legati alla parrocchia come un gruppo che opera a rotazione. Si tratta in ogni caso di un problema grave.

E credo che quando la Chiesa lo affronterà avrà davanti anni davvero difficili. Non mancheranno coloro che diranno di aver accettato il celibato unicamente per arrivare al sacerdozio. D´altra parte, sono certo che ci saranno sempre molti che sceglieranno la via celibataria. Perché i giovani sono idealisti e generosi. Inoltre ci sono nel mondo alcune situazioni particolarmente difficili, in alcuni continenti in particolare. Penso però che tocchi ai vescovi di quei Paesi fare presente queste situazioni e trovarne le soluzioni. Lei si domanda anche se non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio. L´elezione dei vescovi è sempre stato un problema difficile nella Chiesa. Nelle situazioni antiche in cui partecipava maggiormente il popolo, si verificavano litigi e molte divisioni. Oggi forse è stata portata troppo in alto loco. Mi ricordo che un canonista cardinale intervenne in una riunione per dire che non era giusto che la Santa Sede facesse due processi per la stessa persona: uno dovrebbe essere fatto in loco e il secondo dal Nunzio. Quanto alla partecipazione della gente, vi sono alcune diocesi in Svizzera e in Germania che lo fanno, ma è difficile dire che le cose vadano senz´altro meglio. In conclusione, si tratta di una realtà molto complessa. Però l´attuale modo di eleggere i vescovi deve essere migliorato. Sono temi sui quali si dovrebbe riflettere molto, e parlare anche di più. Nei sinodi qualcosa emergeva, ma poi non veniva mai approfondito. Il problema, però, esiste e deve potersi fare una discussione pubblica a questo proposito.

CARLO MARIA MARTINI e
LUIGI MARIA VERZÉ
19 maggio 2009

Commento del 20 maggio pubblicato su Corriere della Sera

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Le tre svolte di Ratzinger – di Melloni Alberto (Corriere della Sera, 15 marzo 2009)
Il Concilio vaticano II diventa un vero punto «dottrinale»; viene superata «l’ ermeneutica della continuità»; il dialogo interreligioso è un dovere «per tutti coloro che credono in Dio»

L’ Osservatore Romano ha stigmatizzato duramente la fuga di notizie sulla lettera del Papa relativa alla remissione delle scomuniche ai vescovi lefebvriani. Ma bisogna dare atto al furbetto e ai suoi mandanti di aver ottenuto un risultato strepitoso, almeno in Italia. Infatti il grosso dei commenti dipende più dalla maliziosa sintesi apparsa sul Foglio che dalla attenta lettura di un testo così impegnativo. Viene da questo autoinganno pilotato dall’ indiscrezione il profluvio di parole sul Papa solo, che si sente «odiato». Passaggio che c’ è. Passaggio che sorprende chi sa che l’ amaro disorientamento di tanti vescovi e fedeli davanti al governo del fatto compiuto discende dell’ amore alla Chiesa e a Pietro, mica dall’ odio. Passaggio che sarà usato dai moschettieri che già s’ affrettano a usarlo come una lama per distinguere i buoni dai cattivi – salvando se mai chi si serve del Papa e trafiggendo chi il Papa lo serve. La lettera «per la pace nella Chiesa» è, invece, tutt’ altro. Perché prende di petto il nodo che soggiace a questo incidente (il settimo dopo quelli di Regensburg, di Auschwitz, del Messale, dell’ Oremus, di Pera e di Pio XII). Per scioglierlo con un aumento di pace, Benedetto XVI si scusa coi vescovi, che, pur chiamati per diritto divino al governo della Chiesa universale come collegio con e sotto Pietro, sono stati trattati per la milionesima volta da scolaretti. Annuncia il commissariamento dell’ organo che ha gestito la questione con un personalismo divenuto esplosivo. Ma soprattutto cambia solennemente posizione su tre punti nodali per il futuro della Chiesa. La prima correzione di rotta riguarda la qualificazione del problema posto dai lefebvriani: Benedetto XVI dice di capire che il Vaticano II non è un caso disciplinare su cui far lavorare qualche apprendista del diritto canonico o della disciplina liturgica, ma un vero punto «dottrinale» (6 volte) nel quale è richiesta una comprensione profonda della transizione epocale che il Concilio fu ed è nella e per la Chiesa. Il secondo mutamento riguarda l’ abbandono del linguaggio usato nel 2005, quando il Papa contrappose una ermeneutica del Concilio della continuità e della riforma contrapponendola ad una ermeneutica della discontinuità del soggetto-Chiesa. Distinzione troppo sottile per una pubblicistica che alla fine approdava (come ha mostrato don Pino Ruggieri in Chi ha paura del Vaticano II?) alla difesa di una identità puramente ideologica fra l’ età dei papi Pii e quella del Concilio. Nella lettera ai vescovi Benedetto XVI non usa mai (mai) la parola «continuità», come voleva far credere il primo «scoop». Invece il Papa afferma contro ogni abuso che «il Vaticano II porta in sé l’ intera storia dottrinale della Chiesa»: formula di grande bellezza, che richiama proprio il cuore della lezione di Pino Alberigo sulla profondità storica del rinnovamento conciliare e che rimette il teologo del Concilio che Ratzinger fu al livello che gli spetta. Il terzo cambiamento riguarda il dialogo interreligioso. Tema sui quali Ratzinger era stato duro da cardinale (si pensi alla dichiarazione Dominus Jesus o alla condanna del teologo Dupuis ad esempio) e che da Papa aveva liquidato in una prefazione dove, seguendo Marcello Pera, negava la possibilità di un dialogo interreligioso «in senso stretto». Oggi Benedetto XVI davanti al collegio episcopale spiega che la testimonianza ecumenica appartiene alla «priorità suprema» per le Chiese e definisce in modo limpido il dialogo interreligioso in senso stretto come il dovere «che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce». Se la lettera del Papa rimarrà ostaggio della politica ecclesiastica (che in Italia finisce sempre per essere politica tout court) sentiremo citare questa lettera in pubblico e in privato per dire che chi nella Chiesa cattolica pensa o addirittura parla, anche se vescovo, odia il Papa. Se verrà sottoposta a decifrazioni psico-mediologiche sentiremo parlare del Papa «solo» o di internet. Se invece la lettera sarà colta per quello che ha di decisivo, se porterà nella Chiesa quella pace che non è stata funestata solo dal basso, allora sarà un altra storia.

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