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Mio padre di Giovanni Bachelet
Università di Roma La Sapienza

“Il Signore disse a Gedeone: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato. Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).

Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.

Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento. Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.

Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni XXIII, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio. Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia. Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti). Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione Cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici. Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.

Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone. Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione. Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione Cattolica nel 1973.

Molte di queste cose le ho capite meglio dopo. Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro. Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione Cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze. Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione Cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare. Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione Cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi. La consegna era quella di portarsi appresso tutti: trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.

Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare. Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno: “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”. Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”. Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa: dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini… Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica.

“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà. Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione Cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria: evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento. Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica: al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.

Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione Cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana. Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.

Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.

In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni. Stare con la magistratura richiedeva coraggio. Come poi si vide. Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare. Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo: “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).

Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973: “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi. Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”. Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme. In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno: preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino. La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.

In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera: Oremus pro pontifice nostro Ioanne… da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.

Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato: Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio. Due brani erano sottolineati a matita da papà. Il primo diceva: “Solo chi dà se stesso crea futuro. Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”. L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva: “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.

La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi. Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”. Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.

(©L’Osservatore Romano 12 febbraio 2010)

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(intervento di Chiccodisenape in occasione dell’incontro “Il Vangelo che abbiamo Ricevuto” Firenze, 16 maggio 2009)

Vorrei che guardaste intorno a voi.
Noi, noi non esistiamo.
Questo ci dicono i nostri amici non credenti: i cattolici critici non esistono perché è una contraddizione in termini. Questo forse spera qualche altro amico, episcopo: i cattolici critici si portano fuori dalla comunione diocesana.
Eppure siamo qui… e quindi forse dovremmo cercare di far vedere che esistiamo.

Il Vangelo che abbiamo ricevuto, noi che abitiamo a Torino, ci ha portati a riunirci sotto il nome di “chiccodisenape”. Il terreno che nutre il nostro chicco è il Concilio Vaticano II, ma non è un ricordo nostalgico di un passato glorioso – seppure molti dei nostri gruppi provano smarrimento ripensando a quello che sperimentarono quarant’anni fa e quanto, invece, vivono oggi – è piuttosto uno stile, uno stimolo, un cibo per il nostro camminare.
Non vi raccontiamo cosa abbiamo proposto come “chiccodisenape”, come rete di 15 gruppi di diversa provenienza ecclesiale, potete scoprirlo visitando il nostro blog all’indirizzo presente nei volantini che sono in distribuzione. Preferiamo piuttosto destinare questo tempo a condividere alcune nostre considerazioni e a lanciare alcune domande.

È tempo di uscire dalle cittadelle!
Poco importa che siano quelle costruite dalla gerarchia, rievocando gli antichi fasti di quando vigeva una sorta di regime di cristianità, o quelle generate dal nostro élitarismo – di noi che sappiamo davvero che cosa è stato il Concilio – incapace di coinvolgere i semplici, i distratti, gli affaticati nella ricerca del Regno.
Uscire dalle cittadelle ma decisi fermamente a rimanere nella chiesa per «starci e realizzarla, come uomini – e donne – liberi e innamorati, con gioia e passione, fedeli e pazienti. Dobbiamo stare attaccati alla chiesa come Dio l’ha sognata e l’ha data, esservi annodati come un nodo alla fune», per usare le parole di Michele Do.
È necessario ripensare profondamente i nostri linguaggi e i nostri strumenti: i convegni e i libri sono strumenti indispensabili e imprescindibili ma non sono sufficienti. Dobbiamo essere capaci di parlare alle e con le persone del nostro tempo, di diffondere materiali divulgativi, di adoperare mezzi di comunicazione gratuiti e facilmente reperibili, di incontrare veramente le vite e i problemi delle persone “distanti” spesso così differenti dalle nostre….

È tempo di superare gli steccati!
Siamo qui laici, preti, consacrati. Ciascuno ha risposto in modo specifico e personale alla comune vocazione a essere cristiani, ma siamo qui perché siamo consapevoli della responsabilità di dover essere testimoni credibili affinché rifioriscano altre vocazioni… laicali (non si parli solamente di “matrimoniali”, per favore, come se fosse possibile ridurre solo a questo la vocazione dei cristiani), presbiterali, religiose.
Possiamo attendere semplicemente che le questioni demografiche a cui stiamo assistendo facciano collassare il sistema e provochino un ritorno alle dinamiche tipiche della chiesa primitiva. Oppure possiamo iniziare ad agire affinché il cambiamento prenda forma.
Abbiamo il dovere – e non solo il diritto – di avere parola nelle chiese, di essere responsabili delle comunità, di studiare teologia, di interpretare il Vangelo, di riflettere sulla morale, di sostenere i presbiteri inascoltati dai loro pastori e oberati di incarichi, di curare le vocazioni verso ciascun ministero. Abbiamo il dovere di essere lievito positivo e propositivo.
Guardiamo la soglia: quanti amici hanno deciso di vivere la loro fede al di là? Quanti, poi, l’hanno abbandonata perché si sono trovati soli e non hanno più trovato una comunità accogliente?
Non ci può bastare ripetere l’espressione “scisma sommerso”: siamo noi a essere scissi, separati, mancanti di qualcosa. E l’irritazione verso coloro che lo scisma forse lo hanno provocato non può essere più forte del nostro desiderio di essere una chiesa fraterna, comunitaria, sinodale, ricca di carismi diversi, libera nel nome di Gesù.

È tempo di uscire dalle strade conosciute!
I tempi che viviamo sono nuovi e più ancora lo saranno i giorni che sono ancora da arrivare: non ci possono bastare le soluzioni e i pensieri finora adoperati. Non saremmo diversi da quello che diciamo di non condividere.
Siamo chiamati a vivere il nostro ministero profetico: capaci di essere strumenti per l’annuncio nel presente e allo stesso tempo aperti al futuro.
Abbiamo molte cose da vigilare e da interpretare: il mondo che viviamo ci disorienta non meno della chiesa. Ma noi le nostre roccaforti abbiamo deciso di lasciarle e siamo dunque pronti a imparare a condividerne “le gioie e le speranze” del mondo contemporaneo, permettendo ai nostri occhi di scovarle nascoste nelle pieghe delle bruttezze con cui coesistono.
Siamo determinati a esplorare i linguaggi e i pensieri per far superare l’estraneità del cristianesimo con il nostro tempo, incarnando in questi giorni e in questa storia l’annuncio del regno.
Siamo speranzosi di poter continuare a essere annunciatori del Vangelo, anche se non sappiamo dire oggi quali saranno i luoghi – se davvero le strutture cambieranno – e quali saranno le persone – se le nostre comunità saranno diventate più accoglienti.
Soprattutto siamo desiderosi di dare risposte alle grandi questioni dei nostri giorni – la bioetica, l’ecologia, l’accoglienza, la pace – a partire da Gesù, dal nostro Signore. Da Lui che ci ha mostrato passioni forti e altrettanto forti tenerezze, che ci ha parlato di misericordia, della libertà dei figli di Dio, della supremazia dell’amore. Da Lui che tanto spesso dimentichiamo di citare nei nostri discorsi, così pieni di disquisizioni sulle istituzioni e sugli atteggiamenti da cambiare.

È tempo, infine, di continuare a ricercare!
Lo stile che ci piacerebbe portare avanti è più avvezzo a continuare a interrogarci – come ama dire qualcuno “ad avere i dubbi che vibrano più forte delle preghiere” – senza accontentarci delle soluzioni più comode.
Lo stile che dobbiamo portare avanti non deve dimenticare la preghiera e la contemplazione, come fonte vitale del nostro impegno, per non far svuotare di senso e di coerenza quanto diciamo.
Continuiamo a farci le domande: sappiamo sperare e costruire una chiesa dialogica e sinodale? siamo pronti ad annunciare il Vangelo ai poveri… alle donne, ai giovani, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati, a chi non ci crede più, a chi mai ci ha creduto, a chi non ci crederà mai? siamo in grado di preparare le strade al Signore Gesù?
Questo è una parte di quello che crediamo che ci serva, ricordando quanto ebbe a scrivere Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel: «La Chiesa è Chiesa soltanto se esiste per gli altri. […] Deve partecipare agli impegni mondani della vita della comunità umana, non dominando, ma aiutando e servendo. […] Essa dovrà parlare di misura, autenticità, fiducia, fedeltà, costanza, pazienza, disciplina, umiltà, sobrietà, modestia. […] La sua parola riceve rilievo e forza non dai concetti, ma dall’“esempio” [la cui origine è nell’umanità di Gesù]» (Resistenza e Resa, San Paolo 1988, 463-464).

(altri interventi: http://137.204.8.65/statusecclesiae/status/common.php?pagina=vangelo_16_maggio.htm)

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di Angelo Bertani/giornalista
da EVANGELIZZARE – Gennaio 2009 (evangelizzare at dehoniane.it)

Non riesco a capire, sinceramente, se coloro che portano nella Chiesa le maggiori responsabilità (la gerarchia anzitutto, ma anche una ristretta cerchia di laici che hanno in mano le chiavi della finanza, dell’informazione e di un certo tipo di “cultura” cattolica) abbiano una percezione realistica della delusione, e dei severi giudizi che sono ormai molto diffusi tra i credenti, soprattutto fra quelli che un tempo si sarebbero chiamati “impegnati”. E non si tratta di una divisione, di un’incomprensione che riguardi soprattutto i temi teologici o politici; non é prevalente questione di destra o sinistra, di tradizione o di novità. Il punto riguarda essenzialmente 1a percezione che si ha dell’«essere Chiesa» e dunque, più in radice, del rapporto con Dio, della natura della relazione fra gli uomini, della centralità assoluta dell’amore come misura rispetto a tutti gli altri valori.

Mistero di comunione o pura organizzazione?
Ma fermiamoci oggi alla coscienza dell’essere Chiesa. Semplificando direi che molti oggi condividono l’allarme che padre Bevilacqua (l’amico e maestro di Paolo VI) esprimeva nei primi anni cinquanta nel suo “Equivoci. Mondo moderno e Cristo”: la Chiesa rischia di trasformarsi da mistero di comunione e di salvezza, da “piccolo resto” di poveri che ripongono in Gesù di Nazareth la speranza della loro salvezza, in superorganizzazione mondana che ripone la sua fiducia nei mezzi materiali, nella superorganizzazione clericale, “volontà di dominio investe sacrale”. Ma tanti altri profeti della nostra Chiesa (Mazzolari, Turoldo, Milani, ma anche preti e vescovi e tanti laici) in questi decenni hanno levato la loro voce per denunciare questo rischio; e con grande gioia hanno accolto lo stile e lo spirito del Concilio.

Impegno o rassegnazione?
Vorrei citare una voce estremamente equilibrata, libera e limpida, che afferma: «Guardando alla realtà dei laici che sono impegnati nella vita delle comunità parrocchiali e nelle strutture della pastorale, non si può non notare il crescere di un disagio, che si manifesta in diverse forme […]. Su tutto, mi pare che prevalga un senso di rassegnazione. Lo stile del servizio di molti laici risulta mortificato e compromesso. La qualità della presenza laicale è collaborativa, ma esecutiva; tranquilla, ma spenta… La partecipazione sostituisce la corresponsabilità; l’operatività, il servizio; il quieto vivere, la comunione. E questo, che per molti costituisce motivo di sofferenza, da altri viene accettato senza troppe domande e contribuisce ad allargare lo spazio di quel laicato la cui mentalità è omologata a un sentire ecclesiale chiuso e un po’ ripiegato. Il disagio dei laici nasce dal riconoscimento che la propria presenza nella comunità viene desiderata in quanto necessaria a mandare avanti le attività, ma sopportata e messa in discussione quando diventa l’offerta di un punto di vista diverso sulla realtà. La presenza di un laicato che si pone con inquietudine domande sulle forme della missione della Chiesa viene guardata con diffidenza – e non solo dai preti – e non serve ad aprire nuovi spazi di dialogo, di interpretazione, di comunicazione con la realtà. Il disagio dei laici in genere non si esprime in forme polemiche, conflittuali, o rivendicative, ma in quelle più pericolose della rinuncia» (Paola Bignardi, Esiste ancora il laicato?, pp. 30-31).

Questa citazione mi sembra di straordinaria importanza perché rappresenta la voce di chi si è impegnato senza risparmi dalla mattina alla sera, in piena fedeltà e collaborazione con la Gerarchia. Non parla certo per spirito polemico: dice queste cose perché, come direbbe don Milani (nella famosa lettera a Pistelli), “tacere non è rispetto”.

Modello “radiale” o fraternità?
Ecco il punto: tacere non è rispetto. I laici che non dicono ad alta voce quello che pensano non sono fedeli alla loro vocazione. E non lo sono neppure i vescovi che non fanno tutto il possibile affinché i laici (e non parliamo dei religiosi e delle religiose, che hanno molte e forti cose da dire!) parlino tra loro e con la gerarchia, a tutti i livelli.

Prevale oggi un modello ecclesiale che chiamerei “radiale”: laici, associazioni, movimenti, diocesi, organizzazioni, giornali… Tutti si sentono ecclesiali per il solo fatto di avere un rapporto diretto con l’autorità, la gerarchia; ciascuno direttamente, per conto suo amministra questo mandato, di delega, di coordinamento. Talora il rapporto è davvero di fiducia, ma non sempre. Spesso è solo di operatività, di efficienza (per dire così). Ognuno ha il suo rapporto operativo con gli uffici della “organizzazione”, riceve la sua parte di finanziamenti (quanto centralismo e quanta cattiva superorganizzazione è nata dai troppi soldi dell’otto per mille!).

In risposta a ciò stanno nascendo altri minicircuiti di collegamento. Presso i monasteri, tra amici, con bollettini o tramite siti internet si creano reti per scambiarsi esperienze ecclesiali, per realizzare incontri, per valutare la situazione ecclesiale, per incoraggiarsi… Certo non c’è più la speranza un po’ utopistica degli anni sessanta che faceva sognare una Chiesa comunità di comunità, di piccoli gruppi… però ce ne sono ancora molti e cercano un legame di sintonia profonda, di fraternità umile e disarmata.

Centralismo o partecipazione?
Fino a pochi anni fa c’era la speranza che la linea indicata dal Concilio potesse tenere assieme non solo nell’unità del Mistero, ma anche nella visibilità della fraternità evangelica, tutte le varie forme e ricerche di vita cristiana. Si pensava che le consulte dei laici, le commissioni, le assemblee diocesane, i consigli pastorali dalle parrocchie al livello nazionale, le esperienze di comunione intorno alla Parola, ai temi pastorali più urgenti, alle sfide stesse della giustizia sociale, della cultura, dell’incontro coi giovani e con gli immigrati… Si pensava che una gran rete di comunicazione, di incontro e dialogo potesse trasformare la Chiesa italiana in una grande comunità articolata e fervente nella carità.

Non c’è bisogno di dire che tutto ciò non è nato; e quando c’era è stato spento da un centralismo autoritario a tutto interessato tranne che al dialogo. Trenta o quarant’anni fa i laici partecipavano a tutti i livelli alle attività della Conferenza episcopale, la stampa cattolica era vivace e pluralista, tra organizzazioni, associazioni e movimenti c’erano incontri continui, favoriti ma non dominati dalla presenza episcopale. I laici organizzati e quelli che partecipavano anche a organismi della Cei potevano prendere posizioni responsabili, intelligenti e incisive. L’università cattolica di Lazzati promuoveva convegni estivi di grande vivacità e livello. Adesso è stata cancellata persino la commissione

Giustizia e Pace, le Settimane sociali sono poco vivaci e lo stesso Convegno ecclesiale che si tiene… ogni dieci anni (!) è sempre meno significativo; della Consulta dei laici non si sente neppure parlare, ad associazioni e movimenti significativi è stato messo il silenziatore, i consigli pastorali languiscono in molte diocesi e non è stato creato un organismo nazionale.

Certo le responsabilità sono di tutti; anche dello spirito un po’ settario di alcuni, anche della pigrizia di molti, anche degli interessi di pochi; anche del troppo potere di uomini di scarso valore. Soprattutto c’è stata una drammatica insufficienza culturale, la mancata percezione della crisi culturale che attraversiamo e che si riassume in una parola: non c’è nessun capo, nessun comitato ristretto che abbia l’intelligenza, la fede, le idee, la credibilità per leggere la realtà del Vangelo nell’oggi.

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di Gad Lerner – Repubblica 23 aprile 2008

Ogni giorno che passa, fra i difensori della laicità si accentua la sensazione desolante di presidiare una frontiera già attraversata in lungo e in largo dalle incursioni nemiche. Ma saranno poi sempre nemiche, tali incursioni? Se il “vescovo rosso” Fernando Lugo vince le elezioni in Paraguay ponendo fine a oltre mezzo secolo di regime di destra, salutiamo in lui un´avanzata della democrazia.
E se all´altro capo del mondo, in Polonia, un politico come Lech Walesa dichiara che “sarebbe una disgrazia” la nomina del reazionario monsignor Slawoj Leszek Glodz alla guida della diocesi di Danzica, apprezziamo il coraggio con cui – da cristiano – interferisce pubblicamente in una scelta del suo papa.
Gli esempi potrebbero essere numerosi. Basti per tutti l´importanza che l´argomento religioso riveste nella campagna elettorale di Barack Obama. Bisognerà pure che i suoi numerosi estimatori laici riconoscano quanto Gesù è presente nei suoi discorsi. Fin da quando gli ultraconservatori lo attaccavano: «Gesù Cristo non voterebbe per Barack Obama, perché Obama si è comportato in modo inconcepibile per Cristo». Sollecitandolo a invadere il loro stesso terreno con le motivazioni bibliche del suo impegno pubblico: «Dopo la stagione dei condottieri come Mosè, capaci di sfidare il faraone affermando i diritti degli afroamericani, io sento di appartenere alla generazione di Giosuè, dei continuatori». Dovremmo forse accusarlo di integralismo?
Al contrario, temo che il ritardo con cui la politica italiana si è emancipata dall´egemonia di partiti fondati su un´appartenenza religiosa, oggi ci stia giocando un brutto scherzo. La nascita del Partito democratico, inteso dai suoi fondatori come superamento degli steccati identitari, è stata così faticosa da sollecitarli a una cautela eccessiva. Tra i democratici italiani prevale tuttora l´idea anacronistica che la motivazione religiosa dell´impegno politico vada sottaciuta. Pena il rischio di urtare le suscettibilità altrui o, peggio, di evidenziare le divisioni culturali esistenti nel campo cattolico.
Naturalmente un tale scrupolo è ben lungi dallo sfiorare la destra, protesa nel tentativo di appropriarsi in toto dell´argomento religioso, ma nel frattempo svelta ad accusare di tradimento i pochi pastori d´anime che osano criticare la sua politica. Mentre i benpensanti laici restano appostati in trincea a denunciare ogni sconfinamento tra politica e religione, i leghisti milanesi non hanno esitato un minuto a rivendicare il “loro” Vangelo (in ruvido, discutibile stile padano) volantinando di fronte alle chiese contro l´arcivescovo Tettamanzi, colpevole di eccessiva sensibilità per i diritti degli immigrati senzatetto. Quarant´anni fa, nel 1968, era il dissenso cattolico a osare simili contestazioni pubbliche nei confronti della gerarchia. Trattenuto da una malintesa concezione della laicità, oggi il cattolicesimo di sinistra mugugna stordito nell´attesa che si levi, sempre più rara, la voce di un cardinale amico a rappresentarne il malessere.
Il problema italiano non è infatti che Camillo Ruini parla troppo di politica. Il problema è che nessun esponente politico gli risponde sul suo medesimo terreno della testimonianza, della prossimità, della misericordia, della coerenza, della spiritualità. I vari Prodi, Rutelli, Marini, Bindi, Parisi se lo sono proibiti, come se la sfida culturale fosse ancora delegabile ai loro riferimenti conciliari, quasi tutti scomparsi se non altro per ragioni anagrafiche.
Così si consolida il luogo comune che nel mondo contemporaneo il messaggio religioso sia appannaggio della destra. E viceversa che non possa più esistere una sinistra religiosa.
Tale rinuncia produce l´effetto di una vera e propria mutilazione. Posti di fronte alla ripetuta, frequente violazione del comandamento («Non invocherai il nome di Dio falsamente»); e di fronte allo stravolgimento dello spirito evangelico riguardo a tante persone di cui viene negata la stessa umanità, molti politici religiosi si autocensurano e con ciò si diminuiscono. Evitano di significare pubblicamente le motivazioni più profonde del loro impegno civile.
Attardandosi sulla frontiera colabrodo della laicità, rischiamo di esagerare l´importanza dei nuovi compagni di viaggio “teodem”, faticando a riconoscerli membri a pieno titolo del Partito democratico. Il fastidio diffuso nei confronti di Paola Binetti si alimenta di un equivoco. Tutt´altro che un retaggio clericale d´altri tempi, né impiccio né residuo, col suo cilicio e la sua affiliazione all´Opus Dei, la Binetti è figura politica modernissima. Il futuro ce ne riserverà sempre di più, non necessariamente agganciate come lei a una relazione fiduciaria con la gerarchia ecclesiale. Del resto il passato del cattolicesimo democratico è ricco di figure capaci di esprimere sé stesse per intero, senza che ciò violi alcun imperativo di laicità.
Vale la pena citare un ricordo di Raniero La Valle, estensore trent´anni fa del fondamentale articolo 1 della legge 194 sulla tutela sociale della maternità e l´interruzione volontaria della gravidanza. Intervenendo al Senato in difesa della legge, il cattolico di sinistra La Valle non esitò a citare il fiat evangelico di Maria al concepimento del figlio di Dio come episodio di autodeterminazione imprescindibile della donna, riconosciuta titolare inaggirabile del rapporto col nascituro anche nel Vangelo. La scelta politica e la scelta religiosa si sovrappongono più di quanto certi guardiani retrogradi della laicità siano disposti a riconoscere. Negarlo regala spazio a chi pratica l´ostentazione dei valori come strumento di potere.
Come il resto del mondo, è facile prevedere che anche l´Italia sarà palcoscenico in futuro di una sfida tra destra e sinistra religiosa, anche se baldanzosamente la destra s´illude di averla già vinta. Tale sfida rischia ovunque di logorare la tenuta del sistema democratico e il principio di laicità dello Stato. Aggrediti pure dalla miscela di fede, nostalgia, sessuofobia, pregiudizio antiscientifico, disagio esistenziale, cui ricorrono gli integralismi. Ma l´antidoto non sarà mai il divieto di una pulsione incomprimibile. Semmai è la reciproca interferenza, la contestazione dell´oscurantismo sullo stesso terreno della spiritualità.
Perché il confronto avvenga proficuamente va preservata una cornice di regole pubbliche, quelle sì da difendere in trincea. La scuola statale di tutti, per prima, come luogo formativo e d´integrazione nei valori democratici. E poi le norme laiche di un codice civile che non s´illuda di replicare mai il modello di convivenza già fallito nella democrazia ex-imperiale britannica: un comunitarismo – per dirla con Amartya Sen – che frantuma la cittadinanza in affiliazioni separate, il cui destino è finire in rotta di collisione.
Salvaguardata la laicità dello Stato. Conseguito un sistema democratico moderno i cui partiti ospitano senza distinzioni credenti, non credenti, diversamente credenti. Nel nostro tempo impaurito la politica tornerà a nobilitarsi solo rappresentando una speranza globale, e dunque – perché no – anche religiosa.

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Agli amici di Chicco di senape presentiamo l’appello di Argomenti2000. Chi fosse interessato a sottoscrivere il documento può farlo seguendo le indicazioni presenti al fondo del post.

Parliamone ora, perché ci interessa il futuro

Vogliamo guardare al di là dell’appuntamento elettorale, lo facciamo perché ci pare importante sin d’ora darci appuntamento all’indomani di una campagna elettorale che ha messo in luce la debolezza con cui le forze politiche hanno affrontato – “aiutate” da una sciagurata legge elettorale e dalle logiche di una comunicazione semplificata – le questioni di fondo di un impasse politico che non ha precedenti.
 
Alcuni segni di questa debolezza:
  • la composizione delle liste elettorali che registra, accanto ad alcuni elementi di novità e discontinuità, dosi robuste di conservazione e di oligarchie all’opera;
  • lo smarrimento della volontà progettuale, quale sintesi di nuova proposta politica, che è stato uno degli elementi di maggiore interesse della costituzione del PD;
  • la difficoltà di superare l’autoreferenzialità ormai acquisita e consolidata dell’attuale sistema.  
Saranno comunque gli esiti elettorali a determinare equilibri, persistenze, mutamenti e ricollocazioni; a dire se sono stati avviati processi di sintesi, tesi non solo alla governabilità ma anche alla qualità della rappresentanza.
 
La
volontà di non lasciarsi abbattere dalla situazione presente e di non rinunciare a costruire il futuro politico del nostro Paese, ci convince della necessità di rimanere nei luoghi della partecipazione con una coscienza critica, investendo in quelle reti di relazioni che possono contribuire ad individuare percorsi in grado di alimentare la buona politica: una politica corretta, competente, attenta e vicina ai reali problemi della gente, in grado di favorire la selezione di una classe dirigente adeguata.
 
Uno sguardo positivo e propositivo ci può impegnare nella direzione di:
  • un progetto di sintesi culturale che risponda alle esigenze di una società plurale e che non può essere eluso in nome della contingenza e dell’urgenza dei programmi
  • contenuti politici legati ad una prospettiva solidale e di welfare sostenibile, su cui maturare un costruttivo confronto
  • una laicità matura in grado di contrastare le spinte fondamentaliste e disgregatrici, rinnovando il “patto” costituzionale che promuove l’integrazione e la convivenza pacifica, nazionale e internazionale
  • dare spazio e voce al territorio, valorizzando le realtà locali.
Organizzarsi per “resistere”
Nuove stagioni sono arrivate, ed è necessario il coraggio di capire ma anche la volontà di mettere insieme i frammenti e di portarli ad unità in una dinamica di nuova cooperazione.
Non “riaggregazioni per contarsi”, ma legami di solidarietà. Attiva e progettuale.
Certo le “componenti” dei partiti troveranno modi e strumenti per organizzarsi. Ma sarebbe riduttivo per loro non alimentarsi della linfa vitale che sgorga dalle tante realtà culturali, differentemente organizzate, che sono proliferate in questi ultimi anni.
 
A noi, come a molte di queste, interessano maggiormente:
  • gli spazi di confronto leale e coordinato
  • i luoghi di reciprocità e ricerca innovativa
  • i percorsi partecipativi e deliberativi
  • i luoghi dove tradurre la laicità in sintesi culturale sui problemi e trovare soluzioni spendibili, in un quadro di pluralità
In questa prospettiva vanno individuati e sostenuti, soprattutto, tutti coloro che, su base locale, provinciale, regionale, operano alla costruzione della città, rafforzando microcosmi interessanti, ma con potenzialità che potrebbero essere assai meglio valorizzate se messe in rete e confrontate. A partire da quella realtà virtuosa che è presente nel locale e che noi, fin dal nostro manifesto programmatico, abbiamo dichiarato di voler sostenere e valorizzare.
 
In questo quadro sentiamo, soprattutto, la necessità di rimettere in gioco le nostre esperienze, per darci strumenti più idonei alla stagione di oggi, e soprattutto più coerenti con la nostra voglia di futuro.
 
Possiamo darci una mano?

 Manifesta il tuo interesse, firma questo testo, inviando una e.mail con oggetto: “15 aprile” a presidente@argomenti2000.it con il tuo nome e cognome, città, e.mail, eventuale recapito telefonico. 

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