Sperare in una Chiesa di comunione e di profezia (traccia di lavoro C)
Diagnosi. I diversi gruppi di riflessione hanno tracciato analisi omogenee, pur nella varietà dei modi di approccio al problema, sin dal frequente richiamo al Vaticano II. Si avverte la sensazione che il Concilio non abbia potuto dare i suoi frutti, vista la prevalsa volontà di annacquare o addirittura di archiviare temi quali il sacerdozio universale, la Chiesa come popolo di Dio, la responsabilità primaria dei laici nella testimonianza del Vangelo del mondo, che sono progressivamente diventati in gran parte obsoleti.
Nasce di qui un diffuso senso di disagio e qualche volta di frustrazione: il Concilio, che aveva aperto la speranza di una Chiesa di comunione e di profezia (e i due termini sono inseparabili), è per molti una speranza delusa. Alla comunione si oppongono, infatti, due atteggiamenti molto diffusi. Da un lato, un irrigidimento della struttura verticistica della Chiesa -dalla Chiesa universale alla parrocchia che può essere valutato sul piano sociologico come un esito inevitabile di tutte le organizzazioni sociali, ma che non per questo non va contrastato. Esso ha sottratto ai laici anche i neonati spazi di autonomia che qualche decennio fa ancora sussistevano e ha accentuato il dualismo chierici-laici all’interno della Chiesa, consolidatosi in un atteggiamento di ascolto e comprensione minori. D’altro lato, almeno nei suoi vertici, sembra aver sostituito la profezia con la politica sia riguardo alle forme del suo agire (forme da gruppo di pressione che adotta metodi e strategie politiche e ricerca il consenso) sia, molto spesso, riguardo agli obiettivi perseguiti, che sono obiettivi di difesa e consolidamento di posizioni di potere e di presenza istituzionale nella società. Conseguenza inevitabile di questo orientamento è la riabilitazione del cattolicesimo come religione civile e cioè religione etico-politica e identitaria, e il corrispondente tramonto della parola e dell’azione profetica, che ha sempre un carattere dialettico e rimanda al Regno e al “non ancora”.
Prospettive. Nelle proposte formulate dai gruppi vi è una sentita esigenza di puntare sull’essenziale, su ciò che fonda l’appartenenza alla Chiesa e in questo vi è certamente la fedeltà al depositum fidei garantito dalla gerarchia e il rispetto della funzione della gerarchia medesima, ma anche cose non meno importanti quali l’ascolto della Parola, la comune chiamata alla testimonianza del Vangelo, la comunione fraterna, la pratica della riconciliazione, il reciproco confermarsi nella speranza, la profezia, cioè il saper giudicare il mondo sulla base della Parola e allo stesso tempo aprirlo alla speranza. Non si dimentichi che proprio il ritorno all’essenziale non può che favorire l’ecumenismo, la cui stagnazione non sembra essere avvertita con la preoccupazione che meriterebbe.
Molti sono convinti che la liturgia abbia bisogno di essere anch’essa ripensata e rivitalizzata, vista la diffusa prassi a cadere in ritualismi esteriori e poco curati, incapaci di coinvolgere in modo attivo i laici. Giusto per fare un esempio delle proposte emergenti per rendere le celebrazioni eucaristiche più partecipate e più comunitarie, si potrebbero pensare a una preparazione delle omelie domenicali in collaborazione tra chierici e laici capaci di farsi portatori della sensibilità e dei problemi dei fedeli.
Numerosi interventi sono stati sulla forma della Chiesa. Anzitutto è parso importante uscire da una logica rivendicativa -o addirittura di risentimento- nei confronti della gerarchia nella consapevolezza che la situazione attuale della Chiesa è stata causata anche dagli atteggiamenti dei laici, sempre più lontani dall’assunzione di responsabilità ecclesiali e dal senso di appartenenza alla Chiesa. Questa, del resto, era la tesi su cui è nata l’iniziativa chiccodisenape.
Il passo successivo è stato riconoscere la necessità di individuare alcuni atteggiamenti che favoriscano la conversione dei cuori e la nascita della comunione fraterna, di cui dovrebbe essere segno la Chiesa stessa.
Il primo di questi è respirare un forte senso di libertà nella Chiesa, perché senza libertà non c’è comunione. È necessario, inoltre, sollecitare una maggiore capacità di ascolto reciproco anche attivando (o riattivando) canali di comunicazione interna, spesso interrotti con il deplorevole risultato che ciascun gruppo, associazione, parrocchia, fino al singolo credente fa la sua strada ritenendo inutile il confronto con le altre esperienze ed escludendole di fatto dal suo orizzonte. Il confronto tra i laici è necessario per permettere l’autonomia nelle scelte e nelle modalità di manifestare la fede nelle realtà e nelle attività mondane.
Quest’opera di mediazione è, infatti, un’opera tipicamente laica e rispetto ad essa non spetta alla gerarchia impartire direttive, ma piuttosto vigilare perché siano fatte salve la fedeltà al Vangelo e la comunione ecclesiale. In questo ambito sarebbe auspicabile una presenza della gerarchia non meno ma invece più intensa, più preoccupata cioè di realizzare l’unità dei credenti nella fede e nella carità non nonostante, ma proprio attraverso la molteplicità non solo di carismi, ma anche di interpretazioni e di applicazioni della fede comune. Le prese di posizione della gerarchia su problemi di ordine etico, politico, sociale, dovrebbero essere l’espressione di un’ampia e frequente consultazione dei laici e dovrebbero in ogni caso rispettare la possibilità di legittime opzioni diverse. E anche nelle questioni di fede, ferma restando la responsabilità e il dovere dei pastori di dire l’ultima parola, sarebbe auspicabile una più ampia consultazione dei credenti.
Da un punto di vista operativo sarà necessario che i luoghi in cui avviene la formazione della spiritualità laicale, a cui si è fatto riferimento nella seconda relazione, siano fucine dell’assunzione di responsabilità, nel mondo e nella Chiesa. Riguardo a quest’ultimo aspetto, si dovrà puntare a un rinnovamento nella formazione e nella gestione dei consigli pastorali ai diversi livelli favorendo la libertà di espressione e la pubblicità dei dibattiti, trovando forme che -se pur diverse da quelle degli organismi politici- puntino a partecipazione e attitudini democratiche maggiori.
E infine la Chiesa può esercitare la sua funzione profetica solo se assume la forma di piccolo gregge in diaspora, libero da compromessi con i poteri del mondo, che con la sua vita e il suo annuncio porta germi di speranza senza pretendere di dare una risposta a tutti i problemi, ma ricercando la verità con tutti gli uomini di buona volontà. Va riconosciuto che la profezia è il dono più grande, perché senza di essa la Chiesa degenera in istituzione, si adatta allo spirito del mondo e diventa collusa con i poteri del mondo. Mettere l’accento sulla profezia significa sottolineare la funzione dello Spirito, che è libertà e universalità: l’azione dello Spirito non conosce confini. Profezia è rompere le incrostazioni, è creatività, apertura al futuro. Ma la profezia non deve esistere senza la carità e cioè deve farsi carico anche del problema dell’unità della Chiesa.
In un confronto serio e caritatevole, nel costante confronto con la Parola, sarà forse possibile superare le lacerazioni che attualmente attraversano la Chiesa, lacerazioni che possono sfociare nell’indifferenza e nella marginalizzazione di molti credenti e che impoveriscono la testimonianza della
Chiesa nel mondo.
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