Messa Vigiliare della V Domenica dopo Pentecoste concelebranti i Vescovi provenienti da Europa, Africa, Asia e America latina partecipanti alla Delegazione dei Cardinali, dei Vescovi e dei Rappresentanti di Organizzazioni, Associazioni e Movimenti cattolici del Sud e del Nord del mondo in occasione del G8 – Milano, Duomo – 4 luglio 2009
Omelia
L’umanità ha bisogno di un “cuore nuovo” – La speranza di Cristo, fonte di solidarietà
Carissimi,
abbiamo aperto questa celebrazione vigiliare con l’ascolto dell’annuncio della risurrezione del Signore. Un annuncio di speranza, anzitutto: in Gesù infatti risorge non solo la sua umanità, ma grazie a lui all’intera umanità è ridata una speranza nuova, capace di varcare persino i confini della morte.
Di questa speranza e di questa vita nuova – che anche oggi ci vengono promesse e donate – siamo chiamati ad essere non semplici uditori, ma annunciatori, testimoni e promotori. Si tratta infatti di una speranza troppo grande perché possa rimanere confinata dentro di noi; è invece offerta “per voi e per tutti”, come diremo tra poco, è per l’intera umanità!
Ci è chiesto di risalire al fondamento di questa speranza, affinché non venga intesa in modo riduttivo – quasi un semplice appello emotivo che sfiora appena la superficie del nostro animo – ma inquieti la nostra coscienza, smuova in profondità le nostre decisioni e le nostre scelte e susciti in noi e negli altri un impegno responsabile, deciso e costante.
1. Le pagine della Sacra Scrittura che abbiamo ascoltato ci parlano di una speranza che viene da lontano. Il libro della Genesi, cioè delle origini del mondo e dell’umanità, ci ha mostrato come la fedeltà di Dio, che è da sempre, si manifesta anzitutto come alleanza con Abramo e insieme con l’intera sua discendenza: «Ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni […] e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te» (Genesi 17,4.6-7).
Il testo sacro ci rivela un legame profondo, radicale, indissolubile che in Abramo Dio istituisce in modo definitivo con l’umanità. E’ un legame non di tipo contrattuale, perché Dio non dona in vista di una restituzione (peraltro impraticabile), ma dona, ama e amerà per sempre e senza condizioni ogni uomo, ogni popolo e nazione: così si è manifestato in Gesù, venuto – come afferma il vangelo che poco fa abbiamo ascoltato – «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Giovanni 12,47).
Dio mette in gioco se stesso per primo, crea in Abramo un’alleanza unilaterale; domanda però che l’amore con cui ci raggiunge non sia gelosamente trattenuto da noi, ma attraverso di noi possa arrivare responsabilmente a molti altri. Dio non si attende “restituzioni”; vuole però che, in forza del suo patto d’amore, riconosciamo con gioia e serietà la fraternità che tutti ci lega: una fraternità universale che non può più essere solo enunciata in modo vago o solo sussurrata in contesti lontani da quelli in cui si decidono le sorti dei popoli e il loro sviluppo e si progettano i passi del riconoscimento di una vera dignità di tutti e di ciascuno. I diritti dei deboli non sono diritti deboli! Sono diritti che vanno proclamati, riconosciuti, difesi e promossi! Con tutte le nostre forze! Ciò vale per i singoli e ciò vale per i popoli, vale per l’unica grande famiglia umana.
In altre parole, potremmo dire che in ogni nostra scelta – ma soprattutto nelle decisioni che riguardano la società o il mondo – ci troviamo di fronte ad un’inquietante, drammatica alternativa: scegliere in vista del proprio interesse o in vista del bene comune, di tutti, e di tutti nel loro insieme. Sì, la prospettiva dischiusa dall’alleanza in Abramo ha purtroppo come alternativa la logica perversa di Caino, e quindi il mancato riconoscimento della fraternità. Alla domanda del Signore: dov’è Abele, tuo fratello? Caino rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Genesi 4,9).
2. Siamo così introdotti ad una riflessione di particolare attualità. Esiste, ed è quanto mai diffuso, un egoismo che potremmo chiamare “sociale”, un egoismo che, dietro il velo dell’apparente difesa dei propri diritti, nasconde visioni quanto mai ristrette, di chiusura, di vera e propria contrapposizione. E se queste visioni vengono lasciate cadere è solo quando si è certi che gli altri possano essere funzionali ai propri interessi. E così, sia nei comportamenti individuali sia in quelli pubblici, l’apertura agli altri e il riconoscimento dei loro giusti diritti spesso cambia a seconda che gli altri rientrino o meno nei nostri progetti e ci possano recare qualche vantaggio.
Ma questa è una forma di ingiustizia accuratamente ricoperta di apparenti “buone” ragioni. Troppo spesso l’ingiustizia si diffonde nascondendosi sotto il velo dell’apparente difesa dei propri diritti! Eppure, per chi è onesto, non è difficile distinguere la vera dalla falsa giustizia: il criterio principale è riconoscere se è compatibile con i diritti di tutti o di alcuni soltanto.
Questo nostro tempo, tuttavia, ci offre non poche possibilità di dare risposta a questo “egoismo sociale”, o collettivo, che confonde la difesa degli interessi di alcuni con il riconoscimento del bene e dei diritti di tutti, l’unico – quest’ultimo – in grado di garantire una pace autentica.
L’incontro tra i Leader del G8, che avverrà nei prossimi giorni nel nostro Paese nella città dell’Aquila, è un’opportunità che ci è data per far sentire la voce che esprime la coscienza cristiana che avverte come proprie le necessità di molti popoli del mondo, che purtroppo non hanno voce. Di questa “non-voce” la nostra coscienza vuole farsi carico!
In piena sintonia con la Lettera delle Conferenze Episcopali Cattoliche ai Leader dei Paesi del G8 dello scorso 22 giugno, non posso non riaffermare con forza, in primo luogo, che le conseguenze dell’attuale crisi – la cui responsabilità e le cui origini sono dei Paesi più ricchi – non devono alla fine ricadere pesantemente sui Paesi più poveri. In questo senso lo sviluppo dei popoli deve essere considerato questione assolutamente prioritaria e da condividere da parte di tutti: è da porsi ai primi posti nell’agenda di chi ha responsabilità nell’ambito dell’economia mondiale.
Come scrivono nella lettera citata i Presidenti delle Conferenze Episcopali ai rispettivi Leader: “I Paesi Membri del G8 dovrebbero far fronte alle loro responsabilità nella promozione del dialogo con le altre maggiori potenze economiche per aiutare e prevenire ulteriori crisi finanziarie”. E proseguono: “Inoltre dovrebbero onorare i loro impegni nell’aumento degli Aiuti allo Sviluppo per ridurre la povertà globale e raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, specialmente nei Paesi Africani”. Lo sviluppo, oltre che esigenza imprescindibile di ogni persona e di ogni popolo, è premessa indispensabile per la pace. E lo sviluppo economico, che pure non rappresenta ancora quello sviluppo integrale dell’umanità che tutti auspichiamo, ne è comunque l’indispensabile premessa.
In questo senso, la cancellazione del debito estero, la necessità di contrastare gli effetti devastanti dovuti ai cambiamenti climatici, l’esigenza di una governance globale dell’economia e della finanza come pure di una nuova regolamentazione del mercato delle risorse e dei beni a raggio internazionale, sono altrettante priorità che non ammettono dilazione alcuna. E se al riguardo si sono decisi degli interventi, è il caso di dire che pacta sunt servanda!
Milioni di persone al mondo subiscono ingiuste e drammatiche sofferenze, costrette come sono a migrare a causa delle difficili – se non proibitive – condizioni di vita nei Paesi d’origine. Molte di queste sofferenze sono provocate ai migranti talvolta da discutibili provvedimenti messi in atto da quei Paesi più ricchi che dovrebbero maggiormente impegnarsi in percorsi di accoglienza e integrazione seri, ragionati e rigorosi. Sono sofferenze che devono essere risparmiate ai migranti e alle popolazioni dei Paesi poveri realizzando con lungimiranza e coraggio gli interventi specificati dall’Agenda della speranza. Potrà avvenire così la desiderabile giusta regolazione del fenomeno migratorio e dei problemi che genera.
3. A fondamento di questi interventi deve essere posto un sistema di relazioni rinnovate tra i popoli; e, ancor più profondamente, una cultura nuova, uno sguardo nuovo sugli altri, una libertà capace di impegno creativo, assiduo, intelligente. Anzitutto, da parte di chi possiede responsabilità tali da poter decidere le sorti di interi popoli. Ma anche da parte di tutti, chiamati ciascuno per nome come Abramo quest’oggi, a sentirsi “parte in causa” e non semplici spettatori dello sviluppo dell’umanità.
In una parola di sintesi, all’umanità occorre oggi un cuore nuovo, capace di pulsare in tutti con lo stesso ritmo e verso la stessa meta del vero, del bene e del giusto. Occorre quel rinnovamento profondo che solo il cuore di Dio può donarci – come sta accadendo in questa celebrazione eucaristica – come principio di una moralità e di una solidarietà a raggio mondiale.
A Dio, alla sua alleanza d’amore che non conosce incertezze o infedeltà, desideriamo adesso, tutti insieme, affidarci. E’ Dio in Cristo Gesù la nostra speranza. Guardando al mondo con i suoi occhi e il suo cuore riscopriremo sempre più le ragioni profonde della speranza autentica, che ci spingerà verso un futuro comune, condiviso e solidale, secondo il disegno di Dio e le attese del cuore d’ogni uomo. Al Signore chiediamo la forza e la gioia di continuare a camminare «sulle orme della fede del nostro padre Abramo» (Romani 4,12), entro quell’alleanza di fraternità universale che con lui ha preso inizio e che in noi ogni giorno si radica e si fa “vita della nostra vita”.
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano
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