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di GIAN ENRICO RUSCONI – pubblicato oggi su La Stampa

I cattolici torneranno a condizionare direttamente la politica? Ma hanno forse mai smesso di contare nel berlusconismo in tutte le sue fasi: dal trionfo di ieri sino alla sua virtuale decomposizione? Dentro, fuori, contro. Grazie al berlusconismo hanno creato un consistente «pacchetto cattolico», con scritto sopra la perentoria frase «valori non negoziabili». Nel contempo hanno mantenuto aperti spazi giornalistici di franco dissenso.

Che cosa ci si aspetta ora da Pier Ferdinando Casini, che ha preso parte diretta e indiretta a tutte le fasi del berlusconismo? Anche quando se n’è tenuto lontano, è riuscito ad essere lo spauracchio della Lega e dei post-fascisti incorreggibili. Ma soprattutto a farsi rimpiangere dal Cavaliere.

E’ ovvio che ora, nella fase attuale di latente disarticolazione e disgregazione del berlusconismo, Casini riacquisti profilo. Si badi bene: non sto parlando affatto della fine del berlusconismo, tanto meno dell’esaurirsi dello stile politico-mediatico che ha prepotentemente segnato la vita politica italiana e ha deformato il modo di guardare e di giudicare la politica. Questo costume andrà avanti, sotto altre spoglie. Ma assistiamo alla disarticolazione dei pezzi della classe politica che il Cavaliere ha tenuto insieme sino ad ieri. Ma questa classe politica non sparirà affatto. Anche se sentimentalmente legata ancora a Berlusconi, è fermamente determinata a non finire con lui.

In questo contesto, Casini si presenta come l’uomo politico in grado di ricompattare l’intero segmento dei cattolici in politica, cominciando con il mettere al sicuro «il pacchetto cattolico» da un’ipotetica ripresa laica. E’ questo ciò che sta a cuore alla gerarchia ecclesiastica.

Se questa operazione riesce, i cattolici continueranno a costituire una «lobby dei valori» (come se quegli degli altri fossero disvalori) senza riuscire ad essere una vera classe politica dirigente. Forse non se ne rendono neppure conto. Comincio a pensare che le ragioni di questa debolezza siano da ricercare anche nell’elaborazione religiosa di cui si sentono tanto sicuri. Cerco di spiegarmi – a costo di dire cose sgradevoli.

Non c’è bisogno di evocare «il ritorno della religione nell’età post-secolare» per constatare nel nostro Paese la forte presenza pubblica della religione-di-chiesa (cioè dell’espressione religiosa mediata esclusivamente dalle strutture della Chiesa cattolica). Ma la rilevanza pubblica della religione, forte sui temi «eticamente sensibili» (come si dice), è accompagnata da un sostanziale impaccio comunicativo nei contenuti teologici che tali temi dovrebbe fondare. O meglio, i contenuti teologici vengono citati solo se sono funzionali alle raccomandazioni morali. Siamo davanti ad una religione de-teologizzata, che cerca una compensazione in una nuova enfasi sulla «spiritualità». Ma questa si presenta con una fenomenologia molto fragile, che va dall’elaborazione tutta soggettiva di motivi religiosi tradizionali sino a terapie di benessere psichico. I contenuti di «verità» religiosa teologicamente forti e qualificanti – i concetti di rivelazione, salvezza, redenzione, peccato originale (per tacere di altri dogmi più complessi ) -, che nella loro formulazione dogmatica hanno condizionato intimamente lo sviluppo spirituale e intellettuale dell’Occidente cristiano, sono rimossi dal discorso pubblico. Per i credenti rimangono uno sfondo e un supporto «narrativo» e illustrativo, non già fondante della pratica rituale. La Natività che abbiamo appena celebrato è fondata sul dogma teologico di Cristo «vero Dio e vero uomo». Si tratta di una «verità» che ha profondamente inciso e formato generazioni di credenti per secoli. Oggi è ripetuta – sommersa in un clima di superficiale sentimentalismo – senza più la comprensione del senso di una verità che non è più mediabile nei modi del discorso pubblico.

Ricordo il commento di un illustre prelato davanti alla capanna di Betlemme: lì dentro – disse – c’era «la vera famiglia», sottintendendo che tali non erano le coppie di fatto e peggio omosessuali. Si tratta naturalmente di un convincimento che un pastore d’anime ha il diritto di sostenere, ma che in quella circostanza suonava come una banalizzazione dell’evento dell’incarnazione, che avrebbe meritato ben altro commento. Ma viene il dubbio che ciò che soprattutto preme oggi agli uomini di Chiesa nel loro discorso pubblico sia esclusivamente la difesa di quelli essi che chiamano «i valori» tout court, coincidenti con la tematica della «vita», della «famiglia naturale» e i problemi bioetici, quali sono intesi dalla dottrina ufficiale della Chiesa. Non altro. La crescita delle ineguaglianze sociali e della povertà, la fine della solidarietà in una società diventata brutale e cinica (nel momento in cui proclama enfaticamente le proprie «radici cristiane»), sollevano sempre meno scandalo e soprattutto non creano impegno militante paragonabile alla mobilitazione per i «valori non negoziabili».

Un altro esempio è dato dalla vigorosa battaglia pubblica condotta a favore del crocifisso nelle aule scolastiche e nei luoghi pubblici. Una battaglia fatta in nome del valore universale di un simbolo dell’Uomo giusto vittima dell’ingiustizia degli uomini. O icona della sofferenza umana. Di fatto però, a livello politico domestico il crocifisso è promosso soprattutto come segno dell’identità storico-culturale degli italiani. E presso molti leghisti diventa una minacciosa arma simbolica anti-islamica. In ogni caso, l’autentico significato teologico – traumatico e salvifico del Figlio di Dio crocifisso, oggetto di una fede che non è condivisa da altre visioni religiose, tanto meno in uno spazio pubblico – è passato sotto silenzio. I professionisti della religione non riescono più a comunicarlo. E i nostri politici sono semplicemente ignoranti.

Se i cattolici hanno l’ambizione di ridiventare diretti protagonisti della politica, dovrebbero riflettere più seriamente sul loro ruolo. Il discorso politico, soprattutto quando porta alla deliberazione legislativa, rimane e deve rimanere rigorosamente laico, nel senso che non può trasmettere contenuti religiosi. Ma nello «spazio pubblico», che è molto più ampio e può ospitare discorsi di ogni tipo, si deve misurare la maturità di un movimento di ispirazione religiosa che sa essere davvero universalistico nell’interpretare e nel gestire l’etica pubblica. Non semplicemente una lobby in difesa di quelli che in esclusiva proclama i propri valori.

 

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di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose – 24 dicembre, La Stampa

Il bilancio che ciascuno di noi fa sui dodici mesi trascorsi è sempre condizionato dalle aspettative che aveva nutrito nell’anno precedente e, specularmente, orienta le speranze per l’anno a venire, soprattutto quando ci veniamo a trovare alla fine di un decennio: allora attese e disillusioni si fanno più forti, quasi che il misurare il tempo in cifre tonde e simboliche – gli anni «zero» del terzo millennio – sia percepito con maggiore intensità e che le svolte impresse al corso della storia debbano assumere un carattere più marcato. Così, il dover constatare anche alla chiusura di quest’anno che ben poco è stato fatto per sanare situazioni negative nella convivenza umana, in ambito nazionale come a livello planetario, risulta fonte di particolare amarezza.

Non solo, sembra quasi che il protrarsi indefinito di profonde ferite inferte all’umanità e al creato finiscano per trasformarsi in ineluttabili calamità, cui si è fatta l’abitudine e che si derubricano a problemi cronici, non più degni di attenzione e di impegno. È il caso delle guerre e delle patenti violazioni dei diritti umani in certe aree del globo: i conflitti vengono dimenticati, le vittime ignorate, le sofferenze banalizzate, come se si trattasse di ciclici eventi naturali, analoghi all’alternarsi delle stagioni.

La crisi economica, per esempio, ha solo superficialmente scalfito la fiducia nell’autoregolamentazione del mercato globale, suggerendo al massimo alcuni accorgimenti per una maggiore vigilanza, mentre le ingiustizie di fondo che pervadono i rapporti produttivi e commerciali non sono state considerate degne di seria attenzione. Anche la mancanza di legalità o l’irrisione dello stato di diritto, il non rispetto delle minoranze e dei più deboli e indifesi, il diradarsi delle strutture di solidarietà e di integrazione sociale paiono ormai atteggiamenti passivamente acquisiti, la cui disumanità non interpella più le coscienze. A poco a poco ci si assuefa alla barbarie quotidiana, si rinuncia alla sana indignazione contro gli attentati portati alla dignità di ogni essere umano, si considera scontata l’impossibilità del dialogo civile, ci si rassegna a una sorda lotta di tutti contro tutti.

Eppure l’animo umano fatica a rinunciare alle aspettative di miglioramento, è portato a «sperare contro ogni speranza», soprattutto là dove percepisce che non è in gioco solo il mero interesse personale, ma il futuro delle generazioni che si affacciano oggi all’esistenza e di fronte alle quali saremo considerati responsabili: il desiderio di riconsegnare la società civile in condizioni migliori di quelle nelle quali ci è stata affidata da quanti ci hanno preceduto anima il cuore e l’intelligenza di ogni essere umano degno di tal nome. Per i cristiani, in particolare, cittadini come gli altri e solidali con loro nelle vicende quotidiane, questo desiderio assume anche i tratti dell’annuncio di verità in cui si crede: non dogmi astratti, ma convinzioni che muovono il pensare e l’operare. Allora non è utopia sperare che l’annuncio evangelico delle beatitudini, il disarmo di ogni inimicizia, il prendersi cura di chi è nel bisogno, il perdono per le offese ricevute possano trovare fecondo terreno di crescita non solo nei cuori dei singoli, ma nel tessuto stesso dalla convivenza civile: queste speranze non sono il non-luogo dei nostri sogni, ma l’anelito insopprimibile che rende sopportabile anche un presente intristito nel suo ripiegarsi su se stesso.

Cesserà l’imbarbarimento dei rapporti quotidiani? Rinascerà la solidarietà tra le generazioni e le popolazioni della terra? Si concretizzerà la cura e la custodia per un creato affidato alla mano sapiente dell’uomo? I più deboli troveranno nei più forti sostegno e non oppressione? Le carestie, le guerre e le pandemie finiranno di essere considerate ineluttabili e verranno contrastate nelle loro cause e nei loro effetti? La pace ritroverà nel concreto della storia il suo significato di vita piena e ricca di senso? E ancora, crescerà il dialogo franco e autentico all’interno della chiesa e tra le chiese? Ci si aprirà all’ascolto dell’altro, al rispetto delle sue convinzioni, al discernimento delle sue attese, indipendentemente dal suo credere o meno? A questo dovremmo pensare quando ci scambiamo gli auguri: non a un gesto formale e scaramantico, ma a una promessa di impegno e a un’assunzione di responsabilità. Perché lo sguardo critico e sereno sul grigiore del passato è già apertura a un futuro colorato di speranza.

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“Tante famiglie in autunno saranno a rischio. Siamo la capitale della carità. Lavoro, c’è più attenzione”

di Flavio Corazza “La Stampa” – 5 settembre 2009

Cardinale Poletto, lei è arrivato 10 anni fa sulla cattedra di San Massimo, e stasera celebrerà una messa alla Consolata alle 18,15. Com’è cambiata la città da allora?
«Dieci anni fa conoscevo questa città per sentito dire. Sia sul piano ecclesiale che civile. Giungevo da Asti, e avevo il cuore pieno di timore e tremore. Mi affidai al Signore, chiedendogli un aiuto speciale per lavorare in una città così importante, affascinante ma complessa. La prima preoccupazione fu di conoscere le varie realtà. Nel primo anno ho incontrato ciascun sacerdote e ho ascoltato i laici. E ho elaborato un piano ecclesiale che non avesse scadenza annuale ma decennale. Poi mi sono inserito in punta di piedi nella realtà civile e sociale, avviando un confronto fin dal Giubileo 2000 che è stata la prima occasione di dialogo. Invitai a un convegno 1200 persone rappresentative del territorio a Teatro Nuovo e mi misi in ascolto. Da quella esperienza costituii un forum permanente con la società. Da allora riunisco qui da me due volte l’anno per un pomeriggio 14 persone rappresentative. Rispetto a 10 anni fa la città è cresciuta molto nell’attenzione alle povertà e alle problematiche connesse al lavoro: nella diocesi ci sono 600 centri di ascolto per dare aiuto ai poveri. Ho ascoltato lavoratori e imprenditori in decine di crisi aziendali, per incoraggiare la ricerca di soluzioni positive».

Insediandosi, disse che Torino aveva delle ferite aperte: sono rimarginate e se ne sono aperte altre?
«Oggi c’è la grande ferita aperta e sanguinante che la crisi finanziaria mondiale provoca in migliaia di famiglie. Cassintegrati, operai in mobilità, licenziati: molte famiglie che prima vivevano decorosamente con due stipendi ora sono magari senza reddito o con salari ridotti. Mentre il mutuo casa e la rata per l’auto restano».

E la Chiesa, oltre a stare vicino a queste persone, che cosa fa in concreto?
«Io cerco di aiutare i poveri grazie a una mia San Vincenzo, che ho trovato già organizzata. Ricevo tutti i giorni, anche oggi, tante richieste di aiuto. Per fortuna la San Vincenzo è strutturata in modo da andare a domicilio per verificare come dare aiuto nei limiti del possibile».

Quello che inizia potrebbe essere un autunno molto difficile per tanti, con decine di aziende che potrebbero non riaprire. E’ la situazione peggiore che ha vissuto?
«No, il momento peggiore fu quando si temeva che la Fiat non ce la facesse e potesse chiudere o fallire. Allora era peggio di oggi, con decine di migliaia di famiglie a rischio. Per fortuna Umberto Agnelli, succeduto al fratello Avvocato al timone della Fiat, prese la decisione giusta, investendo sull’auto. Da lì la svolta e poi l’arrivo di Marchionne e lo slancio degli ultimi anni. Il dialogo con la nuova dirigenza è meno formale di un tempo, e si entra spesso nel concreto».

Papa Wojtyla chiudendo la messa per il centenario della morte di don Bosco in piazza Maria Ausiliatrice nel 1988 invitò energicamente Torino a «convertirsi». La città si è convertita?
«Il Papa a pranzo manifestò un problema, e quell’invito forse nacque in quel contesto».

Che problema?
«Chiese a noi vescovi presenti: come mai una città così ricca di santi è anche così laica? Noi dicemmo: Santità, non pensiamo a nessuna causa particolare. E’ il frutto della storia passata, che ha lasciato tracce di laicismo poi consolidate. Io credo che tutti abbiano sempre bisogno di conversione. Il Papa, forse, avrà voluto dire: sono qui per ricordarvelo, e per invitarvi a non cancellare l’eredità dei santi. Da allora la situazione è migliorata. Ci sono ancora atei e gente che combatte i valori religiosi, ma ci sono più rispetto e considerazione nei confronti della realtà ecclesiale. Il clima di dialogo, pur su posizioni diverse, è sempre cresciuto».

Proprio a lei, per due anni e mezzo prete operaio autorizzato dal vescovo a Casale, è toccato celebrare i funerali dei 7 morti della Thyssen, la più grande tragedia del mondo del lavoro dell’Italia moderna. C’è stato un momento in cui ci si è scordati dei problemi dei lavoratori?
«Qui l’industria manifatturiera ha avuto e ha ancora grande spazio rispetto ad altri posti, ed è ben viva l’attenzione alle problematiche del mondo del lavoro. Indubbiamente quando capitano certe disgrazie le coscienze sono interrogate con più forza. Ancor prima della strage di dicembre, a giugno per San Giovanni, presi posizione contro la proprietà di quella fabbrica che aveva annunciato la chiusura per trasferire a Terni i dipendenti. Quando un’industria per qualche decennio ha insediato un suo stabilimento in un territorio ritengo abbia doveri di riconoscenza verso il territorio stesso. Questo concetto si è fatto strada, si veda quanto accaduto alla Indesit».

Ma è stato fatto qualcosa per migliorare la vita nei luoghi di lavoro? Anche l’Osservatore Romano ha a lungo tenuto la conta del numero dei morti sul lavoro, poi ha lasciato perdere.
«La prima cosa da fare, soprattutto nel campo dell’edilizia che ha il primato delle vittime, è la sicurezza della salute e della vita dei dipendenti. E lì le cose vanno migliorando. A Casale si muore ancora per il mesotelioma provocato dall’amianto della Eternit. Però ho anche visto come segni di progresso tre realtà produttive di Mirafiori – la linea della Grande Punto, il Centro Design e il Centro Produzione Abarth – che Marchionne mi ha chiamato a benedire di recente. Questi luoghi sono strutturati con un’attenzione particolare verso le persone».

Torino è ancora una città che fa carità, coltiva speranza e ha fiducia?
«Che faccia carità è fuori discussione, è la città della carità. Nessuna grande città ha strutture e disponibilità come la nostra. Vuole un esempio? Al Cottolengo c’è una donna di 86 anni, piccola di statura, che è stata portata lì quando ne aveva 6, e da allora non s’è mai mossa da questo luogo di carità. Realtà e storie come questa contagiano l’intera città, dai santi sociali ai giorni nostri. Un giorno Chiamparino mi ha detto: se tutte le parrocchie improvvisamente chiudessero io non saprei come tenere in piedi Torino. E’ un riconoscimento che il sindaco fa al grande ruolo della Chiesa nella città. Quanto alla fede, se guardiamo alla partecipazione alle messe domenicali siamo purtroppo a livelli molto bassi».

Dieci per cento?
«Circa, con situazioni a macchia di leopardo, da zone con il 2-3% al 10%, ma nei paesi si arriva anche al 40. Ma la fede non si può misurare solo così. Tanti tornano a messa al paese d’origine. Ma per fortuna quelli che vanno a messa sono più convinti di una volta. Quanto alla fiducia, certo non è periodo buono, con questa brutta botta della crisi… Molti si sono ritrovati a condizioni di vita che ritenevano superate, ma il mio messaggio è che bisogna credere alla Provvidenza. Il Padre celeste ci farà senz’altro uscire da questa brutta situazione».

E la crisi delle vocazioni?
«Non posso negarla. Il card. Fossati ordinava anche 30 sacerdoti l’anno, io uno-due se va bene. Il record è stato nove. Ma le vocazioni sono migliorate in qualità. Oggi quasi tutti i giovani che entrano in seminario hanno il diploma di maturità e la loro formazione è accurata».

Costruzione della moschea e sistemazione dei profughi, due casi aperti. Come risolverli?
«La Chiesa è per favorire l’accoglienza. Il diritto a emigrare è sacrosanto, ne hanno usufruito anche gli italiani. Ma sempre nel rispetto delle leggi e della legalità. Chi viene da noi per migliorare il tenore di vita deve avere la possibilità di trovare un lavoro e una vita decorosa. Quanto alla moschea penso che i musulmani abbiano diritto a un luogo di preghiera, ma secondo me deve passare ancora un po’ di tempo per costruire un minareto accanto a un campanile. Torino non è pronta. Nulla in contrario invece alle sale di preghiera, non li dobbiamo costringere a pregare in piazza».

La critica che l’ha ferita di più in questi 10 anni forse è stata per la costruzione della chiesa del Santo Volto, vero?
«Sì. Ho accettato le critiche ma sono andato avanti lo stesso anche perché avevo fatto una consultazione con il clero impegnandomi in anticipo ad accettarne l’esito. Il risultato fu un incoraggiamento ad andare avanti. Ora possiamo constatare che nel complesso del Santo Volto firmato da un architetto di fama come Mario Botta abbiamo realizzato una chiesa per una parrocchia di 13 mila abitanti, gli uffici della curia metropolitana, un centro congressi per 700 posti con un grande foyer e due piani di parcheggi. Il tutto senza chiedere offerte ai sacerdoti o ai fedeli, ma con il contributo di enti e fondazioni bancarie e con risparmi interni. Senza far debiti o intaccare le riserve diocesane».

E il momento più bello?
«La chiusura delle missioni diocesane, con 7 mila fedeli torinesi al pellegrinaggio e all’udienza del Papa per concludere l’anno di redditio fidei. Lì il Santo Padre annunciò l’Ostensione della Sindone dell’anno prossimo e ci promise che verrà a Torino».

Che ricaduta avrà sulla città l’Ostensione?
«Spero molto positiva. All’inizio pensavo di attendere ancora qualche anno, poi ho accolto le tante richieste ricevute anche per far vedere la Sindone dopo il restauro del 2002. Credo che la presenza della Sindone a Torino sia il segno che la città è benedetta da Dio».

Come sono i rapporti con gli enti locali?
«Con il Comune non ci sono mai stati contrasti, con la Regione – perché ha competenze diverse che abbracciano il campo sanitario e quindi anche etico – ci sono state a volte prese di posizione divergenti, ma sempre con rispetto delle persone».

Il pregio dei torinesi?
«Sono molto sensibili al rispetto delle istituzioni, forse retaggio dell’eredità sabauda. Pensano che le istituzioni, Chiesa compresa, sono cose serie. Con il passare degli anni ho scoperto una Torino migliore di quella che conoscevo prima».

E il difetto?
«Come potrei guardare la pagliuzza nell’occhio di gente che mi ha accolto così bene, senza prima vedere i miei limiti?».

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di Enzo Bianchi – da La Stampa (15 febbraio 2009)

«C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohelet, così come «c’è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire…». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che biblica – è parsa dimenticata. Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è certo – dire una parola udibile.

Attorno all’agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida – «assassini», «boia», «lasciatela a noi»… – senza pensare a Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna [non “adultera”] neppure io ti condanno: va’ e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!» al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?

Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.

È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa. Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.

Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L’Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all’altro, a una cultura o a un’altra.

La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia», lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari…

Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato…». Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis, il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato… In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.

Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche a chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno. La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale, essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.

Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita».

Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede, affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell’amore e nella libertà.

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Piuttosto che sull’editoriale di Marco Tarquino pubblicato in prima pagina da Avvenire, preferiamo confrontarci sull’intervento che il senatore Pietro Ichino avrebbe tenuto ieri sera a Palazzo Madama se la seduta non fosse stata sospesa oggi pubblicato su La Stampa.

Nuovamente rimaniamo sconcertati e proviamo vergogna dalle parole utilizzate dal quotidiano Avvenire. Malgrado le parole di misericordia, vicinanza e perdono, pronunciate durante le conferenze stampa, si continua nell’alimentare il frastuono dei giorni scorsi. 

L’urgente confronto su un tema così profondo necessita della disponibilità al dialogo e al rispetto. Rispetto.

Ed invece… pretese ed ancora pretese, fino a rivolgersi direttamente ai giudici alla ricerca affannosa dell’unica cosa che manca: l’illegalità.

Possibile si debbano alimentari dubbi (leciti???)? Possibile rivolgersi (indirettamente!) ad un padre con parole quali giudice e boia?… possibile che questo sia il giornale dei nostri Vescovi?

Non nominare Dio invano
di Pietro Ichino

Vorrei distinguere la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come credente. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.

Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi un’infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.

Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale. (…).

Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.

È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine – di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità ebraica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.

In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della loro coscienza, lasciando che proprio quest’ultima – la coscienza – resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam» («qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno»). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno «rese a Cesare» (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile – le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.

«Rendere a Cesare quel che è di Cesare» significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (cioè in quello spazio che il Vangelo ci invita a «rendere a Cesare»), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano».

Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.

Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini – della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra -, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.

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