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Posts Tagged ‘Azione Cattolica Italiana’

Mio padre di Giovanni Bachelet
Università di Roma La Sapienza

“Il Signore disse a Gedeone: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: La mia mano mi ha salvato. Ora annunzia davanti a tutto il popolo: Chiunque ha paura e trema, torni indietro”” (Giudici, 7, 1-3).

Con mia madre e mia sorella scegliemmo questi versetti, molto cari a papà, per accompagnare la sua foto.

Gedeone, seguendo le istruzioni del Signore, rimanda a casa trentaduemila uomini e ne tiene con sé solo trecento. Con loro, armati di brocche, trombe e fiaccole accese – e grande coraggio, fondato sulla parola del Signore – irrompe di notte nel campo dei madianiti, che, presi dal panico, fuggono in disordine.

Ci voleva coraggio e fede per accettare a trentatré anni, da Giovanni XXIII, e a trentotto, da Paolo VI, la vicepresidenza e poi la presidenza dell’Azione cattolica, col formidabile mandato di attuare in Italia il concilio. Per far entrare la Bibbia e la nuova liturgia in ogni famiglia e in ogni parrocchia. Per trasformare l’Azione cattolica in un laboratorio della Chiesa di domani, un’inedita combinazione di democrazia interna (con capi eletti dai soci e non rinnovabili per più di due mandati) e serena fedeltà ai Pastori (titolari anche nel nuovo statuto di un ruolo decisivo nelle scelte importanti). Per concentrarsi sul Vangelo e sulla formazione cristiana, restituendo l’impegno politico – e lo sport, e altre cose buone per le quali l’Azione Cattolica aveva fino a quel momento svolto una preziosa opera di supplenza – all’autonoma responsabilità dei laici. Per voltare pagina rispetto a quelli che Mario Rossi aveva definito “i giorni dell’onnipotenza”, al prezzo di una dolorosa cura dimagrante numerica e finanziaria.

Ci volevano il coraggio e la fiducia che nel Signore aveva avuto Gedeone. Ad “avere attenzione alla realtà dell’uomo di oggi senza chiudersi nell’alterigia del fariseo (…) ed essere non fazione tra fazioni, non organizzazione di potere, ma sale e luce del mondo”, come diceva nel 1966 ai presidenti diocesani, lo aiutava la piena intesa col Papa e con l’assistente nazionale, monsignor Franco Costa, ispiratori di un’intera generazione di preti e laici innamorati della libertà e della democrazia e, dopo la guerra e la Resistenza, della Repubblica, della Costituente e della Costituzione. Solo a un presidente e un assistente tanto concordi nella distinzione di compiti fra clero e laici, quanto refrattari a ogni faziosità e favoritismo, poteva riuscire il miracolo di accompagnare l’emersione di diversi punti di vista, fisiologicamente associati all’avvento della democrazia associativa, con la “continua crescita di uno stile di fraternità e di libertà, di uno sforzo di costruzione”, che mio padre registrava con gioia nel suo ultimo discorso all’Azione Cattolica nel 1973.

Molte di queste cose le ho capite meglio dopo. Allora, fra elementari e liceo, don Costa era per me un prete genovese col quale si andava in montagna insieme ad altre famiglie; un vescovo che scherzava volentieri e, per esempio, impediva a noi bambini di baciargli la mano, improvvisando un esilarante, inatteso braccio di ferro. Sapevo che era assistente nazionale dell’Azione Cattolica e che c’era un concilio in fase di attuazione; tuttavia in quel gruppo di montanari cambiare lingua dal latino all’italiano e introdurre tre letture, il segno della pace o la chitarra, parevano cose altrettanto naturali che il mio passaggio dalle elementari alle medie al liceo; solo da grande mi resi conto che, altrove, quegli stessi passaggi conciliari erano stati vissuti con minor naturalezza e talora con forti resistenze. Solo da grande, grazie ai racconti di mamma, appresi ad esempio che Bruno Paparella, segretario generale dell’Azione Cattolica mentre mio padre era presidente, spesso a pranzo a casa nostra e noto a noi bambini soprattutto per i suoi scherzi, non era proprio entusiasta del nuovo cammino conciliare. Evidentemente in quegli anni, dietro il fraterno e pacifico cammino conciliare dell’Azione Cattolica (e con essa gran parte della Chiesa italiana), c’era molta fede, ma anche molta capacità di ascolto, intesa coi pastori, umiltà nell’accettare un progresso fatto di piccoli passi. La consegna era quella di portarsi appresso tutti: trasferire gradualmente e senza strappi all’intero popolo di Dio “privilegi” anticamente riservati al clero e, fino al concilio, accessibili al massimo a universitari o laureati cattolici, come la preghiera delle ore, la lettura e il commento della Bibbia, la comprensione e la partecipazione piena alla liturgia eucaristica.

Il senso dell’umorismo spingeva spesso mio padre a sorridere, anziché piangere, sulla lentezza e l’ansietà nella realizzazione del dettato conciliare. Sorrideva quando un vecchio parroco concluse l’omelia con una postilla a sorpresa, del tutto avulsa dalle letture del giorno: “Io la moglie per i preti non ce la vedo! Sia lodato Gesù Cristo”. Sorrideva nel ricordare sommessamente a un amico vescovo che “in democrazia non basta aver ragione, ma occorre anche farsela dare dal 51 per cento degli elettori”. Sorrideva anche quando i vescovi italiani fissavano una riunione plenaria della loro conferenza proprio alla vigilia di una scadenza elettorale, malgrado la distinzione conciliare fra comunità politica e Chiesa: dopo secoli di trono e altare – diceva – ci vuole almeno qualche decennio a cambiare abitudini… Sulla centralità della competenza e della conoscenza, sulla legittima pluralità di vedute in molti campi dell’agire umano, sulla chiara distinzione di ruoli fra comunità politica e Chiesa della Gaudium et spes si basava la “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica.

“Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono”, diceva papà. Dunque la Chiesa, e con essa l’Azione Cattolica, dovevano concentrarsi sulla propria missione primaria: evangelizzare o rievangelizzare il mondo in rapido mutamento. Ma questa scelta non implicava affatto il ritorno dei laici nelle sacrestie e il disprezzo per la politica: al contrario, si fondava sul rispetto della sua autonomia e sull’apprezzamento della sua insostituibile funzione, tanto che Paolo VI la definì addirittura “la più alta forma della carità”.

Per carattere e vocazione, però, mio padre amava molto l’università e l’Azione Cattolica, meno la politica e la Democrazia Cristiana. Certo votava per quel partito, convinto che “i pochi che ci assomigliano sono lì”, ma credo che, pur non immaginando che quattro anni dopo gli sarebbe costata la vita, nel 1976 papà abbia vissuto la candidatura nella “nuova Dc” di Moro e Zaccagnini più come dovere che come piacere.

Fu eletto al Comune di Roma e poco dopo il Parlamento lo designò per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove fu eletto vicepresidente.

In quegli anni alcuni politici, tuttora vispi e attivi, avevano coniato lo slogan “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; c’era anche chi tramava nell’ombra, fra logge e bombe sui treni. Stare con la magistratura richiedeva coraggio. Come poi si vide. Don Abbondio sosteneva che il coraggio, uno, non se lo può dare. Il cardinale Borromeo lo sgridava chiedendo: “Non pensate che (…) c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?” (I promessi sposi, xxv).

Mio padre trovava coraggio e forza nel Signore, come Gedeone, come Bonhoeffer da lui citato all’ultima assemblea del 1973: “Io credo che Dio, in ogni situazione difficile, ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi. Ogni paura per il futuro dovrebbe essere superata con questa fede”. Questa fede a noi figli è apparsa, fin da piccoli, nella preghiera dei genitori, papà e mamma insieme. In loro la preghiera appariva un bisogno primario come il cibo o il sonno: preghiera antica e moderna, salmi e rosario e compieta, italiano e latino. La mattina, la sera, prima di mangiare, in viaggio.

In uno dei ricordi più dolci dell’infanzia ci sono papà e mamma inginocchiati vicino al mio letto e, prima che il sonno prevalga, sento le parole di una delle loro preghiere della sera: Oremus pro pontifice nostro Ioanne… da allora abbiamo pregato per Paolo, per Giovanni Paolo, e, oggi, per Benedetto; abbiamo amato e amiamo il Papa non perché, come disse una volta papà, si chiama Giovanni o Paolo, ma perché si chiama Pietro.

Qualche giorno fa mamma mi ha detto di aver trovato in casa un libretto che in trent’anni non aveva mai notato: Fede e futuro, che Papa Benedetto ha scritto da giovane, pochi anni dopo la fine del concilio. Due brani erano sottolineati a matita da papà. Il primo diceva: “Solo chi dà se stesso crea futuro. Chi vuol semplicemente insegnare, cambiare solo gli altri, rimane sterile”. L’altro brano, nell’ultimo paragrafo intitolato Il futuro della Chiesa, diceva: “Il futuro della chiesa (…) non verrà da coloro che prescrivono ricette (…) o invece si adeguano al momento che passa (…) o criticano gli altri e ritengono se stessi una misura infallibile (…) o dichiarano sorpassato tutto ciò che impone sacrifici all’uomo (…) Anche questa volta, come sempre, il futuro della chiesa verrà dai nuovi santi”.

La fede, l’amore e l’obbedienza risultano purtroppo incomprensibili a molti di quelli che guardano alle vicende della Chiesa dal di fuori e credono di vederci dentro solo una gigantesca partita a scacchi. Papà era invece convinto che “cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani nell’obbedienza e nella pace, proprio come Angelo Roncalli, prete, vescovo e Papa libero e fedele, perché ha avuto fede non nella sua forza ma in quella dello Spirito che guida la Chiesa”. Ne sono convinto anch’io, e, a trent’anni dalla morte di mio padre, chiedo al Signore per me e per i miei figli, per i laici e per i preti della mia Chiesa fede e coraggio, obbedienza e pace.

(©L’Osservatore Romano 12 febbraio 2010)

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Il messaggio di Benedetto XVI all’AC

Il documento finale della XIII Assemblea Nazionale dell’AC

Il saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’AC

La relazione di Luigi Alici per l’apertura della XIII Assemblea Nazionale

Altre informazioni su www.azionecattolica.it

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L’Azione Cattolica Italiana per una politica profondamente rinnovata

1. L’Azione Cattolica Italiana, nei suoi 140 anni di storia, è sempre stata attenta ai processi che concorrono a costruire il tessuto civile e sociale del Paese. Anche oggi, nell’imminenza di elezioni politiche anticipate, vogliamo riaffermare la necessità di un rinnovato impegno per la costruzione della città dell’uomo, che riporti al centro della politica il primato del bene comune. Il nostro radicamento popolare e la diffusione capillare sul territorio ci portano a una lettura preoccupata dell’attuale deterioramento dell’etica pubblica e del rapporto tra cittadini e istituzioni. È sotto gli occhi di tutti la crisi di governabilità che caratterizza la vita della “seconda repubblica” e che ci costringe nuovamente al voto, a soli due anni dalle ultime elezioni. Una vera e propria questione morale emerge oltre il fenomeno allarmante della degenerazione del clima politico, all’origine di ingiustificate inefficienze del sistema e di ritardi nelle riforme, che stridono scandalosamente con gli inaccettabili costi della politica e gli sprechi delle risorse pubbliche. Ancora una volta, ci sembra importante riproporre un nostro contributo, avendo sullo sfondo il ricco magistero sociale della Chiesa. Giovanni Paolo II ci ha ricordato che “l’identità sociale e culturale dell’Italia e la missione di civiltà che essa ha adempiuto ed adempie in Europa e nel mondo ben difficilmente si potrebbero comprendere al di fuori di quella linfa vitale che è costituita dal cristianesimo”. Nello stesso tempo, ha richiamato un insegnamento fondamentale del Concilio Vaticano II: “La comunità politica esiste […] in funzione di quel bene comune nel quale essa trova significato e piena giustificazione e dal quale ricava il suo ordinamento giuridico, originario e proprio (Gaudium et Spes, 74)” (Discorso al Parlamento italiano, 14.XI.2002). Anche una Nota della “Congregazione per la dottrina della fede” riafferma “la legittima libertà dei cittadini cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche compatibili con la fede e la legge morale naturale, quella che secondo il proprio criterio meglio si adegua alle esigenze del bene comune” (Circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24.XI.2002). Auspichiamo quindi anche noi, insieme al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il card. Angelo Bagnasco, che questa circostanza “si riveli un’occasione di crescita morale e civile […]. L’Italia ha bisogno di un soprassalto di amore per se stessa, per ricomprendere le proprie radici e dare slancio al proprio avvenire, interpretando adeguatamente il proprio compito nel concerto delle nazioni. Facciamo in modo dunque che risalti la civiltà della politica, e le sue acquisizioni volte al rispetto della persona e allo sviluppo della comunità” (Prolusione, 10.III.2008). Alla luce di questa consapevolezza, desideriamo rilanciare l’invito a porre al centro di ogni autentica progettazione politica soprattutto il rispetto, la difesa e la promozione della vita e della pace. La vita umana è il valore primario, la misura ultima che giustifica e orienta l’esercizio del potere politico; la pace rappresenta una modalità fondamentale e irrinunciabile di servire la vita, la sua dignità e inviolabilità. Da questi valori discende un’intera rete di sostegno ai luoghi di crescita della persona, a partire dalla famiglia, per espandersi progressivamente alla città e a tutte le istituzioni, nazionali e internazionali. Questo richiamo ci sembra indispensabile, non solo per risolvere in modo alto la conflittualità del sistema sociale, ma anche per evitare che il bipolarismo si trasformi, da semplice strumento di rappresentanza, in fattore di lacerazione del tessuto civile, aggravato dal continuo alternarsi di progetti di riforma ad ogni cambio di maggioranza. Riteniamo che il patto tra società civile e sfera istituzionale sia messo in crisi dal complessivo indebolimento delle ragioni del vivere in comune e della solidarietà che deve sostenere la vita della comunità politica. È grave che il ritorno alle urne preveda ancora l’utilizzo di una legge elettorale sulla quale tutte le forze politiche e sociali hanno espresso un giudizio negativo, ma il cui cambiamento non ha trovato posto nell’agenda parlamentare. Tale legge non aiuta il coinvolgimento democratico, né la piena trasparenza nella scelta dei candidati e della loro posizione nelle liste dei partiti. Tutto questo ci spinge a chiedere che gli eletti si impegnino per una stagione di riforme istituzionali davvero condivise, volte ad assicurare governabilità e stabilità, che interessino il sistema di governo, il ruolo e le funzioni delle camere, i regolamenti parlamentari e infine la pessima legge elettorale. Chiediamo ai responsabili dei partiti di impegnarsi per una riqualificazione di questi essenziali organismi di partecipazione e rappresentanza. Vorremmo tornare ad avere partiti in grado di produrre discussione e mediazione tra progetti, e non degradati nella gestione di interessi di parte. Come abbiamo scritto nel nostro “Manifesto”, “il Paese merita un futuro all’altezza del proprio patrimonio di fede cristiana, di cultura umanistica e scientifica, di passione civile e di solidarietà sociale. Ha diritto alla speranza”. In sintonia con l’appello di “Retinopera”, anche noi ci impegniamo a fare la nostra parte, cercando di porre il nostro impegno educativo, secondo un principio di autentica laicità, al servizio di quell’orizzonte primario di valori irrinunciabili che fondano la convivenza civile e precedono ogni legittima dialettica democratica.

2. Il nostro Paese deve investire con coraggio nelle forze più vive dalle quali dipende il futuro di tutti. Pensiamo in particolare ai giovani, ai quali non può essere negato il diritto a una vita piena e dignitosa. È compito della politica ascoltare i giovani, fare loro spazio concretamente nei luoghi di partecipazione, mettere a punto meccanismi e strumenti che offrano migliori opportunità di lavoro e favoriscano progetti di vita stabili. In questo quadro è decisiva una politica attenta alla famiglia e alla genitorialità, com’è anche richiesto dal “Forum delle associazioni familiari”. Tale sostegno si esprime prima di tutto nel riconoscimento della soggettività giuridica di ogni essere umano, dal concepimento al suo termine naturale, dando risposte concrete alla nuova sensibilità riguardo al tema della vita; attraverso una politica sanitaria capace di garantire diritti fondamentali, come il diritto alla salute e il sostegno, con servizi adeguati, alle famiglie con persone disabili o anziani non autosufficienti; favorendo una maggiore tutela della maternità nel mondo del lavoro, una forte politica per la casa, adeguate misure fiscali. Vogliamo un Paese capace di progettare il proprio futuro. Per farlo, occorre superare la logica dell’emergenza e dell’urgenza, rilevabile da tanti sintomi di fragilità economico-sociale. Progettare il futuro significa scommettere su ricerca, istruzione, cultura, ponendo l’istituzione scolastica e universitaria in condizione di assolvere concretamente il proprio compito, in un clima di libertà, in stretta connessione con le famiglie e con tutte le componenti sociali, valorizzando la passione e la creatività delle giovani generazioni. Progettare il futuro significa fare in modo che il lavoro divenga, come affermato dalla nostra Carta costituzionale, un diritto inalienabile. Al centro di questo diritto c’è la dignità di ogni uomo, ma anche la responsabilità di chi lavora e il rapporto tra lavoro e sviluppo. Una
dignità calpestata, se di lavoro ancora si muore, e se di lavoro non sempre si riesce a vivere; una dignità calpestata, se il lavoro non offre prospettive di crescita personale e professionale. Sicurezza, legalità, giustizia retributiva e sviluppo: su questo vorremmo si concentrassero i prossimi interventi di riforma del mercato del lavoro e delle politiche salariali. Progettare il futuro significa anche promuovere inclusione sociale e integrazione culturale. Alla luce dei fenomeni di immigrazione e dell’aumento delle situazioni diffuse di povertà e marginalità, non possiamo che chiedere, soprattutto a nome dei troppi emarginati e senza voce delle nostre città, un impegno operoso per garantire una sostenibilità piena del sistema sociale, dando risposte in termini di protezione sociale ai più deboli e aiutando gli stranieri a trovare le vie praticabili per sentirsi parte del tessuto culturale e civile italiano.

3. Davanti a queste sfide, come cattolici, chiamati ad essere “cittadini degni del Vangelo”, non possiamo tirarci indietro. Guardiamo con simpatia e solidarietà ai laici cristiani e ai tanti aderenti all’Ac che si impegnano nel servizio alla polis. “Si tratta di un compito – come ci ha ricordato Benedetto XVI – della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo” (Discorso al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19.X.2006). Da loro ci aspettiamo un supplemento straordinario di responsabilità nell’elaborare sintesi politico-culturali alte, capaci di incarnare in modo esemplare la propria vocazione, aiutando la politica a ripensarsi nell’ottica del rispetto degli altri, della gratuità, della realizzazione del maggior bene possibile. L’ispirazione cristiana in politica non può ridursi a uno slogan da manifesto elettorale o ad un comodo lasciapassare, ma esige un di più di coerenza e di servizio, che si misura anche dalla concreta disponibilità a favorire un rinnovamento profondo dei metodi e dei contenuti della politica, a cominciare dalle candidature. Chiediamo a tutti i cittadini di resistere alle sirene dell’antipolitica e di non rinunciare all’esercizio consapevole del voto, operando una scelta meditata e responsabile, che sappia ben ponderare i programmi più affidabili, animati da alte progettualità e rette intenzioni, e i candidati più credibili, di provata moralità e competenza. Un paese migliore ha bisogno di coniugare la fedeltà ad un patrimonio condiviso di virtù e di valori, con l’audacia di riforme organiche e innovative, effettivamente all’altezza dei tempi. Ha bisogno di una politica aperta alla partecipazione e al contributo di tutti, ispirata al principio del bene comune, guidata da una logica di solidarietà. Una politica capace di contribuire allo sviluppo di un ordine civile fondato sul rispetto per la persona umana, la sua dignità, i suoi diritti inalienabili. Insomma, una politica profondamente rinnovata.

Roma, 31 marzo 2008 – La Presidenza Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana

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L’Italia di Piero di Simone Cristicchi

Riportiamo un’articolo di don Giuseppe Masiero, assistente nazionale del Settore Adulti, pubblicato sul sito web dell’Azione Cattolica Italiana, inerente il delicanto momento che sta vivendo il nostro paese.

Nelle aule parlamentari forse è la prima volta che si stappa una bottiglia di spumante per brindare in maniera sarcastica alla caduta di un governo. Giustamente un gesto così incivile, ingoiando volgarmente cubetti di mortadella, il giorno successivo alla solenne commemorazione del 60° della nostra Costituzione, è stato energicamente stigmatizzato dal presidente Marini con l’efficace monito: “Il senato non è un’osteria”.
Nel frattempo gli osservatori stranieri si chiedono perplessi perché il sistema Italia si permette di aprire una crisi a fronte di una probabile recessione dell’economia mondiale? Bisogna essere miopi a non riconoscere che il debito pubblico obiettivamente è diminuito, la lotta all’evasione fiscale ha raggiunto risultati brillanti e l’intesa con le componenti sociali positivamente conclusa, poteva avviare la ridistribuzione del reddito alle famiglie, seriamente preoccupate nell’arrivare a fine mese. L’ottica del bene comune viene così compromessa nell’interruzione dell’attività governativa.

Un discernimento sulla situazione creatasi credo vada affrontato oltre le animosità di schieramento e le convenienze di una propaganda elettorale già incominciata con gli insulti e le aggressioni esibite davanti alla diretta televisiva; questo sarebbe un atto di responsabilità e coraggio da parte della coscienze avvertite del nostro Paese. Purtroppo ricorrendo ad una chiave interpretativa del Magistero sociale di Giovanni Paolo II, sono le strutture di peccato che si accumulano nel tessuto civile e politico italiano, come le montagne di immondizia nella splendida città di Napoli. In questa prospettiva è il caso di domandarsi se si tratta solo di crisi del governo e della politica o di una Nazione in preda alla paura di decidere e progettare con lo sguardo rivolto a bambini, alle nuove generazioni. Al riguardo è sempre il papa della Sollicitudo rei socialis, l’enciclica della solidarietà a ricordarci che: “Tutti siamo responsabili di tutti”, a costo dell’impopolarità.

Non è nostro compito entrare nei dettagli di un programma governativo, ma non si può non riconoscere la dignità, la competenza, la lealtà e la pazienza in una difficilissima navigazione politica del presidente del Consiglio Romano Prodi; non sempre si può o si deve vincere, ma un cristiano è chiamato ad attraversare il mare aperto, tra gli scogli del potere con una laicità esigente, animata interiormente dallo spirito evangelico. Vivere da “Cittadini degni del Vangelo”, amando la nostra comunità, ma desiderandola sempre più vicina, come ci ricorda il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, “al cuore della povera gente”, può farci scoprire che è quanto siamo deboli, che diventiamo forti; infatti è attuale l’esortazione di S. Paolo: “Tutto io posso in colui che mi da forza”.

Chi ha diminuito il debito pubblico, non poteva ridurre la gravità preoccupante delle “strutture di peccato” che incombono come macigno nell’oggi della politica. La gratitudine è rara anche tra gli amici nell’arena politica più attenta alle prestazioni muscolari che alle argomentazioni convincenti.
È davvero opportuna in questo momento per intraprendere una politica “alta ed altra” anche una grande preghiera come atto d’amore per l’Italia; la stessa pronunciata da Giovanni Paolo II in preparazione all’Anno Santo. La prossima Settimana Sociale di febbraio, promossa annualmente dall’Azione Cattolica nelle diocesi, potrebbe ancorarsi a questa preghiera.

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