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Piuttosto che sull’editoriale di Marco Tarquino pubblicato in prima pagina da Avvenire, preferiamo confrontarci sull’intervento che il senatore Pietro Ichino avrebbe tenuto ieri sera a Palazzo Madama se la seduta non fosse stata sospesa oggi pubblicato su La Stampa.

Nuovamente rimaniamo sconcertati e proviamo vergogna dalle parole utilizzate dal quotidiano Avvenire. Malgrado le parole di misericordia, vicinanza e perdono, pronunciate durante le conferenze stampa, si continua nell’alimentare il frastuono dei giorni scorsi. 

L’urgente confronto su un tema così profondo necessita della disponibilità al dialogo e al rispetto. Rispetto.

Ed invece… pretese ed ancora pretese, fino a rivolgersi direttamente ai giudici alla ricerca affannosa dell’unica cosa che manca: l’illegalità.

Possibile si debbano alimentari dubbi (leciti???)? Possibile rivolgersi (indirettamente!) ad un padre con parole quali giudice e boia?… possibile che questo sia il giornale dei nostri Vescovi?

Non nominare Dio invano
di Pietro Ichino

Vorrei distinguere la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come credente. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.

Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi un’infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.

Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale. (…).

Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.

È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine – di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità ebraica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.

In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della loro coscienza, lasciando che proprio quest’ultima – la coscienza – resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam» («qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno»). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno «rese a Cesare» (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile – le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.

«Rendere a Cesare quel che è di Cesare» significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (cioè in quello spazio che il Vangelo ci invita a «rendere a Cesare»), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano».

Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.

Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini – della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra -, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.

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di Carlo Maria Martini – Avvenire, 27 luglio 2008

Che cosa posso dire sulla realtà della Chiesa cattolica oggi? Mi lascio ispirare dalle parole di un grande pensatore ed uomo di scienza russo, Pavel Florenskij, morto nel 1937 da martire per la sua fede cristiana: «Solo con l’esperienza immediata è possibile percepire e valutare la ricchezza della Chiesa». Per percepire e valutare le ricchezze della Chiesa bisogna attraversare l’esperienza della fede.

Sarebbe facile redigere una raccolta di lamentele piena di cose che non vanno molto bene nella nostra Chiesa, ma questo significherebbe adottare una visione superficiale e deprimente, e non guardare con gli occhi della fede, che sono gli occhi dell’amore. Naturalmente non dobbiamo chiudere gli occhi sui problemi, dobbiamo tuttavia cercare anzitutto di comprendere il quadro generale nel quale essi si situano.

UN PERIODO STRAORDINARIO NELLA STORIA DELLA CHIESA
Se dunque considero la situazione presente della Chiesa con gli occhi della fede, io vedo soprattutto due cose.

Primo, non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro. La nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre.

Secondo, nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo.
Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come San Girolamo, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica.

È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr – per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro, ora che ad essi viene prestata una nuova attenzione dalla Congregazione della Dottrina della fede) e molti altri ancora viventi. Ricordiamo anche i grandi teologi della Chiesa orientale dei quali conosciamo così poco, come Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov.

Le opinioni su questi teologi possono essere molto diverse e variegate, ma essi certamente rappresentano un incredibile gruppo, come non è mai esistito nella Chiesa nei tempi passati.

Tutto ciò è avvenuto in un mondo carico di problemi e di sfide, come la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, la povertà e la fame, i problemi della violenza diffusa e del mantenimento della pace. È poi particolarmente vivo il problema della difficoltà di comprendere con chiarezza i limiti della legge civile in rapporto alla legge morale. Questi sono problemi molto reali, soprattutto in alcuni Paesi, e sono spesso oggetto di differenti letture che generano una dialettica anche molto accesa.

A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento.

Ma preferisco accantonare almeno per il momento questo genere di problemi e considerare piuttosto la nostra situazione pedagogica e culturale con le conseguenti questioni collegate all’educazione e all’insegnamento.

UNA MENTALITÀ POSTMODERNA
Per cercare un dialogo proficuo tra la gente di questo mondo ed il Vangelo e per rinnovare la nostra pedagogia alla luce dell’esempio di Gesù, è importante osservare attentamente il cosiddetto mondo postmoderno, che costituisce il contesto di fondo di molti di questi problemi e ne condiziona le soluzioni.
Una mentalità postmoderna potrebbe essere definita in termini di opposizioni: un’atmosfera e un movimento di pensiero che si oppone al mondo così come lo abbiamo finora conosciuto. È una mentalità che si distacca spontaneamente dalla metafisica, dall’aristotelismo, dalla tradizione agostiniana e da Roma, considerata come la sede della Chiesa, e da molte altre cose.

Il pensare postmoderno è lontano dal precedente mondo cristiano platonico in cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità, dell’eternità sulla temporalità. Nel nostro mondo di oggi vi è infatti una istintiva preferenza per i sentimenti sulla volontà, per le impressioni sull’intelligenza, per una logica arbitraria e la ricerca del piacere su una moralità ascetica e coercitiva. Questo è un mondo in cui sono prioritari la sensibilità, l’emozione e l’attimo presente. L’esistenza umana diventa quindi un luogo in cui vi è libertà senza freni, in cui una persona esercita, o crede di poter esercitare, il suo personale arbitrio e la propria creatività.

Questo tempo è anche di reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, l’arte, la musica e le nuove scienze umane (in particolare la psicoanalisi) rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare nel mondo. Viene invece accettato che tutte le civiltà siano uguali, mentre prima si insisteva sulla cosiddetta tradizione classica. Oggi un po’ tutto viene posto sullo stesso piano, perché non esistono più criteri con cui verificare che cosa sia una civiltà vera e autentica.

Vi è opposizione alla razionalità vista anche come fonte di violenza perché le persone ritengono che la razionalità può essere imposta in quanto vera.

Si preferisce ogni forma di dialogo e di scambio per il desiderio di essere sempre aperti agli altri e a ciò che è diverso, si è dubbiosi anche verso se stessi e non ci si fida di chi vuole affermare la propria identità con la forza. Questo è il motivo per cui il cristianesimo non viene accolto facilmente quando si presenta come la ‘vera’ religione. Ricordo un giovane che recentemente mi diceva: «Soprattutto, non mi dica che il cristianesimo è verità. Questo mi dà fastidio, mi blocca. È diverso che dire che il cristianesimo è bello…». La bellezza è preferibile alla verità.

In questo clima, la tecnologia non è più considerata uno strumento al servizio dell’umanità, ma un ambiente in cui si danno le nuove regole per interpretare il mondo: non esiste più l’essenza delle cose, ma solo l’utilizzo di esse per un certo fine determinato dalla volontà e dal desiderio di ciascuno.
In questo clima, è conseguente il rifiuto del senso del peccato e della redenzione. Si dice: «Tutti sono uguali, ma ogni persona è unica».

Esiste il diritto assoluto di essere unici e di affermare se stessi. Ogni regola morale è obsoleta. Non esiste più il peccato, né il perdono, né la redenzione e tanto meno il «rinnegare se stessi». La vita non può più essere vista come un sacrificio o una sofferenza.
 

Un’ultima caratteristica della postmodernità è il rifiuto di accettare qualunque cosa che sa di centralismo o di volontà di dirigere le cose dall’alto.
In questo modo di pensare vi è un «complesso anti-romano». Siamo ormai oltre il contesto in cui l’universale, ciò che era scritto, generale e senza tempo, contava di più; in cui ciò che era durevole e immutabile veniva preferito rispetto a ciò che era particolare, locale e datato. Oggi la preferenza è invece per una conoscenza più locale, pluralista, adattabile a circostanze e a tempi diversi.

Non voglio ora esprimere giudizi. Sarebbe necessario molto discernimento per distinguere il vero dal falso, che cosa viene detto con approssimazione da ciò che viene detto con precisione, che cosa è semplicemente una tendenza o una moda da ciò che è una dichiarazione importante e significativa. Ciò che mi preme sottolineare è che questa mentalità è ormai dappertutto, soprattutto presso i giovani, e bisogna tenerne conto.

Ma voglio aggiungere una cosa. Forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero.

Il mistero della Trinità appare come fonte di significato per la vita e un aiuto per comprendere il mistero dell’esistenza umana.

«ESAMINA TUTTO CON DISCERNIMENTO»
 Insegnare la fede in questo mondo rappresenta nondimeno una sfida. Per essere preparati, bisogna fare proprie queste attitudini:
Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili ad un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare di ciò che realmente sentono e di iniziare a distinguere che cosa è veramente vero da ciò che lo è soltanto in apparenza. Come dice San Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti da ogni specie di male» (1 Ts 5:21-22).
Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt. 16,25). Tutto deve essere dato via per Cristo e il suo Vangelo.
Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro.
Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: «Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv. 6,33).

PREGHIERA, UMILTÀ E SILENZIO
Per aiutare a sviluppare queste attitudini, propongo quattro esercizi:

1. Lectio divina.
È una raccomandazione di Giovanni Paolo II: «In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» ( Novo Millennio Ineunte, N. 39). «La Parola di Dio nutre la vita, la preghiera e il viaggio quotidiano, è il principio di unità della comunità in una unità di pensiero, l’ispirazione per il rinnovamento continuo e per la creatività apostolica» ( Ripartendo da Cristo, N. 24).
2. Autocontrollo.
Dobbiamo imparare di nuovo che sapere opporsi alle proprie voglie è qualcosa di più gioioso delle concessioni continue che appaiono desiderabili ma che finiscono per generare noia e sazietà.
3. Silenzio. Dobbiamo allontanarci dalla insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare.
Questo potrebbe sembrare difficile, ma quando si riesce a dare un esempio di pace interiore e tranquillità che nasce da tale esercizio, anche i giovani prendono coraggio e trovano in ciò una fonte di vita e di gioia mai provata prima.
4. Umiltà. Non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili. Per questo hai bisogno di silenzio.

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Anche oggi il quotidiano Avvenire diretto da Dino Boffo, si pronuncia sulle azioni di un partito, il  PD, criticando, con un editoriale di Francesco D’Agostino, il patto stipulato con i radicali e la candidatura di Sandro Veronesi, disquisendo della loro antoropologia.

Alle pagine di un giornale che in queste settimane indubbiamente fa fatica a contribuire ad un uso dei toni più pacati e costruttivi, oggi scegliamo la riflessione di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, pubblicata oggi sulle pagine de La Stampa: I cristiani e la politica, l’utopia di un partito afono.

Una proposta certamente più faticosa dell’utilizzare un quotidiano, i media o dell’organizzare manifestazioni di piazza, perchè basata sull’idea che semplici cristiani e pastori – quindi chiesa – possano confrontarsi, riflettere, dibattere sui differenti temi che emergono nella società e sui quali diventa prima o poi necessario un intervento legislativo da parte dello stato.

Ma, confrontarsi, riflettere, dibattere… nella chiesa, oggi, è possibile?

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Sabato sera il Tg1 intervista Dino Boffo, direttore di Avvenire. Domenica l’intervista viene riportata su Avvenire:

«Salvaguardare la persistenza di un partito che fa diretto riferimento alla dottrina sociale cristiana»
Intervistato ieri sera al Tg1 delle 20, il direttore di ‘Avvenire’ Dino Boffo ha dapprima avuto modo di chiarire che «la Chiesa non fa, davvero non fa, scelte di schieramento. Altra cosa succede per i singoli cattolici, che al pari di ogni altro cittadino, si muovono sulla base della loro sensibilità e a seconda dei valori che vedono rispecchiati da una parte o dall’altra». Richiesto poi di dire una parola sui processi di ristrutturazione e semplificazione in atto nella politica italiana, Boffo ha detto: «Per gli umori che raccolgo in giro, è interesse dei cattolici, come credo sia interesse dello stesso polo di centro-destra, che sia salvaguardata la persistenza di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana».  (pag.8 – Avvenire 10/02/2008)

Riportiamo il commento di Gad Lerner pubblicato oggi su Repubblica.

La gamba tesa del Vaticano
di Gad Lerner, la Repubblica  11-02-2008

Ho provato molta curiosità, l´altra sera, quando il Tg1 ha annunciato con rilievo, nei suoi titoli d´apertura, un´intervista al direttore di Avvenire, Dino Boffo.
Che cosa sta per comunicarci di così importante il mio amico Boffo, la cui relazione fiduciaria con il cardinale Ruini prosegue da quasi vent´anni?
Si esprimerà sulla difesa della vita, sul ruolo della famiglia, sulla controversia teologica con gli ebrei? Macché, la parola gli viene data nei primi minuti del telegiornale, quelli dedicati alla politica interna, subito dopo un resoconto sul braccio di ferro nel centrodestra fra Berlusconi e Casini. Premesso, come di consueto, che la Chiesa non fa scelte di schieramento, il direttore di Avvenire dice finalmente quel che premeva rendere pubblico a lui e a Ruini: “E´ interesse dei cattolici, ma anche dello stesso centrodestra, che sia salvaguardata la presenza in quello schieramento di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana”.
Così noi telespettatori abbiamo potuto arguire che dalla Cei viene trasmesso un duplice invito: all´Udc perché rimanga nel centrodestra; e a Berlusconi perché rettifichi il suo perentorio invito alla confluenza dell´Udc nel Popolo delle libertà, pena la fine della coalizione elettorale.
Poco m´importa stabilire se la dichiarazione di Boffo al Tg1 vada considerata un´ingerenza oppure no. Certo però che un tale singolare, minuzioso interessamento alla sfera partitica, declina assai modestamente il diritto rivendicato dalla Chiesa a intervenire nel dibattito pubblico. Va bene che la religione entra sempre più spesso, a proposito o a sproposito, nei discorsi politici. Va bene che la Chiesa rivendica il diritto-dovere di esprimersi su leggi e regolamenti, come si suol dire, “eticamente sensibili”. Ma dubito esistano argomenti spirituali in favore della salvaguardia di un partito cristiano nel centrodestra.
Di conseguenza vi sono altre domande che rivolgerei a Boffo. Forse Ruini avrebbe preferito che un omologo partito di matrice cattolica sopravvivesse anche nel centrosinistra? La speranza delusa della Chiesa era di ispirarli entrambi, magari nell´attesa che rinasca al centro una nuova Democrazia cristiana?
Fatto sta che il sorprendente intervento a gamba tesa della Chiesa nel dibattito in corso nel centrodestra, denota una sua preoccupazione mondana. Viene il dubbio che alla Chiesa dispiaccia la formazione di due grandi partiti alternativi. Non per motivi religiosi, ma perché un sistema tendenzialmente bipartitico indebolirebbe l´esercizio dell´azione lobbistica in cui s´è specializzata, avvantaggiandosi della frammentazione parlamentare. La politica della Seconda Repubblica è stata afflitta da un crescente degrado morale, ma ciò paradossalmente ha favorito la Cei nel reperimento di interlocutori strumentalmente clericali. La nascita del Pd e del Pdl da questo punto di vista rappresentano un´incognita.
Ricordiamo bene il rammarico con cui Ruini aveva preso atto dell´incontro fra la Margherita e i Ds. Un´ostilità dedicata in particolare ai cattolici di sinistra, primo fra tutti Prodi, che hanno voluto il Partito democratico anche perché lo concepivano come diversa relazione tra fede e impegno politico, cioè come superamento degli anacronistici steccati religiosi.
Oggi la Chiesa si impegna pubblicamente per scongiurare che un´analoga fusione venga realizzata sul versante conservatore. Poco le importa che questo sia già stato l´esito felice di una democrazia matura nel resto d´Europa. Meglio che niente, si aggrappa alla possibilità che sopravviva un piccolo partito cristiano a destra. Calcolando che i cattolici di sinistra già ripetutamente accusati da Avvenire di subalternità al pensiero radicale e di disobbedienza alla dottrina, tornino prima o poi sui loro passi.
Non ho la più pallida idea di come andrà a finire il braccio di ferro fra Berlusconi e Casini. Ma in compenso adesso mi è più chiaro il disegno politico perseguito da Ruini. Guarda caso il leader dell´Udc, non appena subito l´aut aut degli alleati di centrodestra –o vieni in lista con noi, o corri da solo – s´è premurato di far sapere qual è stata la sua prima telefonata: al vicario di Roma, che non è più presidente della Cei ma conserva l´anomalo ruolo di leader politico dei vescovi italiani.
Dispiace che per diventare una democrazia matura l´Italia debba imbattersi pure in questo ostacolo. Dispiace che la Chiesa viva con fastidio la nascita di due grandi partiti alternativi, all´interno dei quali i cattolici possano trovarsi a loro agio. Senza bisogno di rappresentanze parlamentari separate, che a me sembrano piuttosto dépendances curiali per cardinali appassionati di politica.

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foto di esperimento03 - flickr 

Riportiamo l’articolo di Enzo Bianchi pubblicato oggi su Avvenire.

Da almeno tre millenni, cioè dalla conquista di Davide, le vicende politiche e militari della storia di Gerusalemme si intrecciano con la sua dimensione spirituale e così il suo nome “Visione di pace” è costantemente segno di speranza e di contraddizione, attesa e disillusione. Sono le radici ancora più antiche di Gerusalemme a fare di essa il luogo di incontro e di ostilità tra ebrei, cristiani e musulmani, tra coloro che si dichiarano “figli di Abramo”: questi accettò di sacrificare il figlio (Isacco secondo la Bibbia, Ismaele secondo il Corano) sul monte Morjah, il monte identificato con l’altura di Gerusalemme, in risposta all’appello di Dio e divenne così ‘Avinu, “nostro padre”, padre di tutti i credenti nel Dio unico.

Proprio queste ascendenze comuni, questo guardare verso Sion come luogo di cui è detto “Ogni uomo è nato là; insieme danzeranno cantando: In te le nostre fonti!” (Sal 87,5-7), questo considerare Gerusalemme come città “unica e universale”, come “la Santa” (al-Quds è chiamata dalle genti dell’islam), fanno sì che le prospettive che i credenti delle tre religioni nutrono su di essa siano diverse e abbiano suscitato nel corso della storia fino a oggi ostilità, violenze, guerre, visioni di sangue e di morte.

Eppure le tragiche evidenze della storia non fermano l’anelito più profondo dei credenti nelle tre religioni che riconoscono il Dio di Abramo come l’unico Dio: vedere la città santa di Gerusalemme come luogo di una pace possibile, una pace dono di Dio e profezia umana, una pace che non è solo assenza di guerra ma presenza di shalom- salam, “vita piena”, salute, armonia nella propria e nell’altrui esistenza, “grazie e pace” per usare la terminologia apostolica. Questo desiderio è invocazione consapevole che gli uomini da soli non riescono a portare a compimento la vocazione pacificante di Gerusalemme, ma nel contempo è anche assunzione di responsabilità, impegno fattivo affinché le opere, i pensieri, le parole di pace e di vita prevalgano sulle pulsioni di guerra e di morte.

Del resto, proprio gli elementi che fanno di Gerusalemme una città “santa”, cioè separata, distinta, messa a parte da Dio e per Dio, contengono per ciascuna delle tre religioni una dimensione di vuoto, di attesa, di “non ancora”. Gli ebrei vi attendono la venuta del Messia e il giudizio di tutte le generazioni, i cristiani vi venerano il sepolcro vuoto del loro Signore che “tornerà un giorno allo stesso modo in cui è stato visto andare in cielo” (cf. At 1,11), i musulmani pregano sul luogo da cui il Profeta è salito al cielo. Ora, queste attese, così diverse eppur convergenti in un luogo preciso, non possono e non devono alimentare pretese esclusive, non possono e non devono essere vissute gli uni contro gli altri, non possono e non devono tradire la vocazione ultima di Gerusalemme, il suo essere “Visione di pace”.

Come questa attesa possa essere colmata dipende dall’agire concreto, quotidiano di uomini e donne delle tre religioni “abramitiche”; quando le promesse del Signore saranno realizzate dipende dall’obbediente sottomissione di ciascuno e di tutti alla volontà di Dio che chiede ai credenti di gareggiare nel fare il bene; il divenire segno e luce per tutte le genti di un altro modo possibile di vivere gli uni accanto agli altri, gli uni in armonia con gli altri e con il Creatore è affidato alle mani, alle menti e ai cuori di povere creature, balbettanti la loro fede nel Dio unico, ma chiamate a testimoniare con la vita che l’amore è più forte della morte. Sì, “per amore dei fratelli e degli amici, io dirò: pace a te, Gerusalemme!” (Sal 122,8).

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