di Angelo Bertani – Jesus n.4 aprile 2008
Alle imminenti elezioni anticipate, seguite alla crisi del governo Prodi, la Chiesa e i cattolici arrivano in un’atmosfera complessa: dopo una campagna elettorale in cui sono stati corteggiati dalle forze politiche dei vari schieramenti, dopo il lungo dibattito sui “valori non negoziabili”, dopo l’esame dei diversi programmi alla luce della dottrina sociale cristiana, che cosa resta? Forse rimane l’incognita sul risultato elettorale che riscuoterà il centro; restano i dubbi sull’assetto istituzionale della democrazia italiana, tra nostalgia del proporzionale e necessità di un bipolarismo compiuto. Ma resta, sopra ogni cosa, la sensazione di una reciproca strumentalizzazione tra fede e politica che non fa bene né all’una né all’altra.
«Non possiamo negare che nei mesi trascorsi si sia accresciuta una sensazione di disagio e di sofferenza all’interno della Chiesa di Dio che è in Italia e nei rapporti tra i cristiani e la società civile: la contrapposizione sembra aver preso il sopravvento sul dialogo, lo schierarsi in antagonismi sulla riflessione condivisa, l’affermazione di sé sull’ascolto dell’altro. Le opzioni di fondo dei nostri fratelli e sorelle in umanità vengono dipinte sempre più spesso a tinte fosche, con accenti cupi, come se non si sapesse scorgere altro che “prevaricazione e rovina”… Quante durezze in nome di “valori non negoziabili” che fanno trasparire nello stesso linguaggio usato un approccio “mercantile” ai fondamenti etici del bene comune!».
Non sono parole sfuggite dalle labbra di qualche contestatore: è la meditazione che i fratelli e le sorelle della comunità monastica ecumenica di Bose offrivano nella loro Lettera agli amici per la Pentecoste dello scorso anno. Parole largamente condivise nella comunità ecclesiale italiana: «I politici guardano oltre Tevere fino al torcicollo», lamenta un’autorevole rivista cattolica.
È da parecchi anni (forse dal discorso di Giovanni Paolo II al Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985) che la Chiesa italiana ha accresciuto il suo impegno in campo sociale e politico. Con la fine della Dc e la nascita del bipolarismo sono sorti all’interno di ogni schieramento gruppi più o meno organizzati che si dichiarano cattolici. I vescovi hanno cercato di impegnare i cattolici a essere uniti su alcuni temi considerati non negoziabili (lotta all’aborto e all’eutanasia, alle unioni di fatto e al loro riconoscimento, difesa di scuole e ospedali cattolici, presenza pubblica della Chiesa e dei segni della fede cattolica ecc.). Sembra addirittura che la gerarchia rimproveri allo stesso Concilio e postconcilio un atteggiamento troppo arrendevole di fronte al mondo moderno, alla cultura e alla scienza e all’etica di una società pluralista. Vicende come la cancellazione della visita papale alla Sapienza di Roma hanno acuito la tensione e sui giornali atei devoti, cattolici integralisti, laici e cattolici democratici incrociano il fioretto e le spade. Il Tevere sembra oggi più stretto che in passato, attraversato da molti ponti visibili e da molti cunicoli sotterranei.
Credenti e non credenti sono spesso d’accordo nel ritenere che assistiamo a una doppia involuzione. Da un lato la Chiesa sembra abbandonare lo spirito del Concilio e le linee-guida del postconcilio che proponevano un ritorno alle sorgenti evangeliche, rispetto della laicità, atteggiamento cordiale e fiducioso con tutti, dialogo con la cultura, la scienza e le speranze degli uomini; torna invece una ricerca dell’esteriorità, dei mezzi materiali, del potere, della visibilità mondana, dedicando meno cura alla vita di fede e alla formazione delle coscienze.
Dall’altra parte, anche la vita civile e politica sembra farsi più arida e brutale: guidata dalla ricerca del potere, del danaro e dall’uso strumentale della comunicazione e dell’«immagine». Un ritorno del machiavellismo volgare e spregiudicato: poca coerenza, pochissima cultura, niente “progetto”. E poca democrazia.
Questa doppia debolezza, della religione e della politica, espressa da una crisi della vitalità ecclesiale e da una diminuzione della fiducia e della partecipazione dei cittadini alla politica, provoca una reciproca invasione di campo. La Chiesa (ecclesiastici e laici, non pochi) vorrebbe entrare in politica per rendersi più incisiva, determinare leggi e progetti, scegliersi interlocutori affidabili, ottenere condizioni favorevoli. E la politica (alcuni politici, non pochi) vorrebbe sbandierare credenziali e favori del mondo religioso per averne una “copertura morale”, per avvalersi di sostegni etici e materiali e conquistare consensi. In realtà la cattiva politica entra così nella Chiesa; e il clericalismo nella politica.
Non c’è dubbio che Chiesa e istituzioni, religione e politica, possano e debbano collaborare, ma conservando la propria identità, ciascuno con i propri strumenti, i propri fini e il proprio stile. «Anche la preghiera è un problema politico», ammoniva Danielou; e «ogni parola di Dio ha una valenza geo-politica», spiega il cardinale Martini. La storia è ricca di esempi che dimostrano come una buona politica possa essere di aiuto anche alla vita religiosa e morale; e che una Chiesa viva sia una forza amica per tutta la società, anche per i non credenti. Purché tutti rispettino lealmente il «date a Cesare quel che è di Cesare», con quel che segue. È il tema della laicità che, come Claudio Magris giustamente spiegava, «non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato».
Oggi è in crisi proprio questo reciproco rispetto tra dimensione religiosa e dimensione civile. Così la vita civile è turbata da inutili polemiche e si rischia di perdere il senso del bene comune, mentre la vita ecclesiale rischia di perdere il suo stile profetico, la sua differenza qualitativa. Giustamente Alberto Melloni ha ricordato che «il problema della Chiesa è quello della sua credibilità evangelica, non politica».
Qualcuno aveva intuito la deriva che si era iniziata qualche anno fa. Lo storico Pietro Scoppola parlava dei costi della Chiesa politicizzata. La piaga di un magistero che perde autorità proprio mentre accumula potere, che si getta nella politica alla stregua di un partito: «La lunga stagione della “Chiesa di parte” è finita», scriveva già nel 1995, «le ideologie sono crollate; il Paese vive una fase nuova di transizione non solo di sistema politico, ma di cultura, di mentalità, nella quale le ragioni stesse della convivenza e dell’unità nazionale sono rimesse in discussione. Il tema antico del rapporto della Chiesa con la democrazia, in una società frattanto profondamente secolarizzata a seguito degli stessi progressi economici e sociali realizzati, si ripropone in termini nuovi».
«Venuto meno il partito cui la Chiesa era legata», continuava Scoppola, «la tentazione è quella di chiudersi in difesa dei propri “valori”, di ridefinire la presenza in politica solo nei termini di una intesa fra cattolici di vario orientamento politico su alcuni problemi di immediata rilevanza etica, costituendo quasi una lobby trasversale, con il rischio di considerare irrilevante per tutto il resto il condizionamento della fede cristiana sulla politica… Insomma, ci sono sì dei valori cristiani da custodire ma ci sono anche delle virtù civili da promuovere». E concludeva: «Qui è il nodo per una visione del problema non chiusa sugli “interessi cattolici” e per riproporre la presenza della Chiesa come elemento ispiratore di una tensione etica senza la quale la convivenza in una società democratica è esposta a un inarrestabile degrado». L’articolo sta nell’ultimo libro uscito lo scorso anno (La coscienza e il potere, Laterza), ed è stato riproposto in questi giorni da Koinonia, una rivista di Pistoia ma diffusa in Toscana e oltre.
Di fronte alla politica, si insiste troppo sull’alternativa tra «rilevanza» e «irrilevanza», considerate nella loro dimensione più esteriore. E molti credenti oggi si chiedono, con i fratelli di Bose: «Dobbiamo davvero, in nome del Vangelo, imparare anche noi a contarci, a confidare nel numero? Nella Chiesa, negli anni scorsi, ci avevano insegnato la necessità di ben altri stili per la nostra testimonianza nella storia e nella solidarietà con tutti gli uomini».
Su rilevanza e irrilevanza dei cattolici, qualche giorno fa Giovanni Bachelet, parlando a un convegno di Azione cattolica in Toscana diceva con parole di oggi quello che suo padre Vittorio insegnava e testimoniava negli anni Sessanta e Settanta: «Secondo una vulgata alla quale non è facile replicare (per la progressiva rarefazione e inaccessibilità degli strumenti di pubblico confronto interno alla Chiesa), i cattolici italiani sarebbero stati rilevanti alla Costituente e nei quarant’anni democristiani, e risulterebbero invece irrilevanti negli ultimi vent’anni di rimescolamento e grandi trasformazioni economiche e sociali che hanno accompagnato la fine del comunismo, la globalizzazione, le nuove tecnologie informatiche e biomediche».
«In proposito», spiega Bachelet, «s’impongono domande. Negli ultimi vent’anni i cattolici italiani sono stati davvero politicamente irrilevanti? Come si misura e chi misura la loro rilevanza o irrilevanza? E quando c’è, come è stata ottenuta?». E poi, citando una riflessione di Paola Gaiotti, risponde: «Dire che i cattolici siano stati irrilevanti nella gestione difficile della crisi italiana, nell’individuazione delle vie d’uscita, si può solo se si cancellano sia i numeri, sia i nomi dei tanti cattolici adulti, da Nino Andreatta, Pietro Scoppola, Roberto Ruffilli (per citare solo gli scomparsi), ai giovani fucini che aprirono la stagione referendaria, e infine da Oscar Luigi Scalfaro a Romano Prodi, che li hanno rappresentati al livello più alto, riscoprendo il valore dell’impegno politico proprio in ragione della crisi del Paese».
«Questi cattolici» – è sempre Giovanni Bachelet a parlare – «nonostante un appoggio e un entusiasmo da parte dei pastori molto più tiepido (uso un eufemismo) rispetto agli anni democristiani, sono stati rilevanti, eccome. Da adulti. Sono stati portatori di una lettura originale della crisi, della trasformazione della società, dell’economia: una lettura capace di produrre un disegno complessivo per il Paese e di competere non per un ministero, per una regione, per una manciata di seggi o di poltrone: di competere per la guida dell’intero Paese…».
Giovanni Bachelet si chiede a questo punto «come hanno fatto quei cattolici che hanno avuto un ruolo guida e salvato il Paese in alcuni recenti passaggi molto critici, come la bancarotta del 1992 o l’entrata nell’euro nel 1998, ad essere, malgrado i cambiamenti dell’Italia e del mondo e la sopravvenuta scarsa comprensione da parte della Chiesa, rilevanti quanto i cattolici della Costituente o i leader del primo quarantennio democristiano?».
La risposta è chiara: «Il segreto della loro rilevanza sta, a mio avviso, nel Concilio. I “cattolici rilevanti” dell’ultimo ventennio si sono, semplicemente, ispirati e uniformati allo stile dei loro predecessori: uno stile che nella Costituente e nel primo quindicennio democristiano anticipò il Concilio (e per questo De Gasperi, nell’ultima fase della vita, ebbe grane perfino con le massime autorità della Chiesa), e poi, nei successivi venticinque anni, lo realizzò. Ecco il n. 76 della Gaudium et spes, intitolato La comunità politica e la Chiesa: “È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori…”».
«Ancor più che alla rilevanza politica dei cristiani», conclude Bachelet, «questa distinzione, che permette alla Chiesa di non essere parte fra le parti e di parlare al cuore di tutti, giova all’annuncio della buona novella».
E si potrebbero ricordare su questo tema molti altri passi del Concilio, come questo: «La Chiesa non desidera affatto intromettersi nella direzione della società terrena; essa non rivendica a se stessa altra sfera di competenza se non quella di servire amorevolmente e fedelmente, con l’aiuto di Dio, gli uomini» (Ad gentes, n. 12). A sua volta l’Octogesima adveniens dichiara: «Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito Santo – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi».
Come non ricordare, inoltre, il documento della Cei, del 1981, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, in una stagione difficilissima per l’economia, il terrorismo, l’etica pubblica? Vi si legge: «Le difficoltà che l’Italia sperimenta oggi non sono frutto della fatalità. Sono invece segno che il vertiginoso cambiamento delle condizioni di vita ci è largamente sfuggito di mano, e che tutti siamo stati in qualche modo inadempienti… Ma innanzitutto bisogna decidere di ripartire dagli ultimi, che sono il segno drammatico della crisi attuale… Con gli ultimi e gli emarginati potremo tutti recuperare un genere diverso di vita».
E poi precisavano i vescovi italiani: «Il Paese non crescerà se non insieme. Ha bisogno di ritrovare il senso autentico dello Stato, della casa comune, del progetto per il futuro… Come cristiani, come vescovi e come Chiesa non possiamo né condividere né tantomeno coltivare stati d’animo o prospettive fallimentari. Non siamo però alla finestra, né possiamo accettare di chiuderci nelle sagrestie o nel privato. Non per questo ci contrapponiamo al Paese con progetti alternativi o concorrenziali o privilegi di sorta… siamo consapevoli del nostro impegno prioritario di quotidiana conversione a Cristo per imparare a servire. Non si tratta di serrare le fila per fare fronte al mondo… non c’è più prospettiva per una cristianità fatta di pura tradizione sociale… Si tratta di vivere il testamento di Gesù, oggi, perché il mondo creda… perciò le comunità cristiane devono sempre meglio trasformarsi oggi in permanenti scuole di fede, in cui la parola di Dio corra e si diffonda nella famiglia, nel paese, nel quartiere, tra i gruppi, là dove la gente parla e decide, nel cuore degli avvenimenti quotidiani… Ma oggi, in termini nuovi, l’Italia ha una particolare esigenza della presenza più diretta e specifica di laici cristiani…».
In questo clima stiamo arrivando alle elezioni politiche anticipate; e sebbene nelle ultime settimane personalità vaticane e italiane come i cardinali Bertone e Bagnasco abbiano cercato di rasserenare l’atmosfera e di riportare l’attenzione ecclesiale verso i temi della pastorale e della vita ecclesiale, resta un fatto: il laicato cattolico adulto (quello che fu di Alcide de Gasperi e Giuseppe Dossetti, di Granelli e di Moro, di Gorrieri e di Prodi) si è sentito sfiduciato, emarginato, eterodiretto. Indebolito proprio quando avrebbe avuto più bisogno di forza e di fiducia. Solo attraverso la testimonianza di laici liberi e responsabili, infatti, la fede cristiana può offrire molta luce per un progetto e un’azione politica che unisca amore e visione del futuro, sapienza e dialogo, coerenza e speranza.
Mi sembra che tutto ciò si ritrovi nell’articolo scritto da Aldo Moro per Il Giorno in occasione della Pasqua 1977, un anno prima di essere rapito. Scriveva Moro parole che ancora oggi vanno pesate una a una: «Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nella quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, mentre si lavora, ciascuno a proprio modo, a escludere cose mediocri per fare posto a cose grandi».
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